Dio
Somma Teologica I, q. 13
I nomi di Dio
Dopo avere studiato ciò che concerne la conoscenza di Dio, bisogna
procedere allo studio dei nomi di Dio, poiché noi nominiamo
tutte le cose nel modo in cui le conosciamo.
In proposito si fanno dodici quesiti: 1. Se noi possiamo dare un
nome a Dio; 2. Se alcuni nomi detti di Dio designino la sua sostanza;
3. Se alcuni nomi si dicano di Dio in senso proprio, ovvero se tutti gli
si attribuiscano in senso metaforico; 4. Se i vari nomi che si dicono
di Dio siano sinonimi; 5. Se alcuni nomi si attribuiscano a Dio e alle
creature univocamente o equivocamente; 6. Se tali nomi, supposto
che si dicano analogicamente, si attribuiscano primieramente a Dio
o alle creature; 7. Se alcuni nomi sian detti di Dio dall'inizio del
tempo; 8. Se il nome Dio sia un nome indicante natura o operazione; 9. Se
il nome Dio sia un nome comunicabile; 10. Se venga
preso univocamente o equivocamente sia per designare il Dio per natura
che (per designare un dio) per partecipazione o per opinione;
11. Se il nome "Colui che è" sia per eccellenza il nome proprio di Dio;
12. Se si possano su Dio formulare delle proposizioni affermative.
ARTICOLO
1
Se a Dio convenga un nome
SEMBRA che nessun nome convenga a Dio. Infatti:
1. Dionigi dice che
"Di lui non c'è né nome né opinione". E nella
Sacra Scrittura è detto: "Qual è il suo nome e quale nome ha il suo
figliolo, se lo sai?".
2. Ogni nome o si dice in astratto o in concreto. Ora, i nomi concreti
(importando composizione) non convengono a Dio, perché egli
è semplice; neppure gli convengono i nomi astratti, perché non indicano
qualcosa di perfetto e di sussistente. Dunque di Dio non può
dirsi alcun nome.
3. I nomi (sostantivi) indicano una sostanza determinata da una
qualità; i verbi e i participi includono l'idea di tempo; i pronomi
importano un'indicazione (di ordine spaziale e sensibile) oppure
una relazione. Ora, niente di tutto questo può convenire a Dio: perché
egli è senza qualità e senza accidente alcuno, e fuori del tempo;
non cade sotto i sensi in modo che si possa mostrare; né può essere indicato con i relativi, perché i (pronomi) relativi si richiamano a
nomi, participi e pronomi dimostrativi detti in antecedenza. Dunque
Dio non può in nessun modo essere da noi nominato.
IN CONTRARIO: Si legge nella Scrittura:
"Il Signore è come un
guerriero: il suo nome è l'Onnipotente".
RISPONDO: Come dice Aristotele le parole sono segni dei concetti,
e i concetti sono immagini delle cose. Di qui appare chiaro che
le parole si riferiscono alle cose indicate, mediante (però) il concetto
della mente. Sicché noi possiamo nominare una cosa a seconda della
conoscenza intellettuale che ne abbiamo. Ora, si è già dimostrato
che Dio non può essere visto da noi in questa vita nella sua essenza,
ma che è da noi conosciuto mediante le creature per via di
causalità, di eminenza e di rimozione. Conseguentemente può essere
nominato da noi (con termini desunti) dalle creature; non però in
maniera tale che il nome, da cui è indicato, esprima l'essenza di Dio
quale essa è, così come il termine uomo esprime nel suo significato
proprio la natura dell'uomo (quale essa è); poiché questo termine
ci dà dell'uomo la definizione, la quale ne esprime l'essenza; infatti
l'idea espressa dal nome non è che la definizione.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si dice che Dio non ha nome o che
è al di sopra di ogni denominazione, perché la sua essenza è al di
sopra di tutto ciò che noi possiamo concepire o esprimere a parole.
2. Siccome noi
arriviamo alla conoscenza di Dio mediante le creature
e da esse ne derivano le denominazioni, i nomi che attribuiamo
a Dio lo esprimono in un modo che (propriamente) conviene alle
creature materiali, la cui cognizione ci è connaturale, come abbiamo
già detto. E poiché tra queste creature gli enti perfetti e sussistenti
sono composti, mentre la forma loro non è qualcosa di completo e
di sussistente, ma piuttosto il costitutivo di un essere qualsiasi; ne
segue che tutti i nomi, che noi imponiamo per esprimere un essere
completo e sussistente, sono termini concreti, come conviene ai composti;
i nomi, invece, che si danno per indicare forme semplici, non
esprimono un essere sussistente, ma ciò per cui una cosa è; così
bianchezza significa ciò per cui un oggetto è bianco. Siccome dunque
Dio è insieme semplice e sussistente, gli attribuiamo dei nomi astratti
per indicare la sua semplicità, e dei nomi concreti per designarne la
sussistenza e la perfezione: né gli uni né gli altri però esprimono il
suo proprio modo di essere, come neppure il nostro intelletto, in
questa vita, lo conosce così come egli è.
3. Indicare una sostanza specificata da una qualità equivale a indicare
il supposito con la natura o la forma determinata, nella quale
sussiste. Quindi come si danno a Dio dei nomi concreti per indicarne
la sussistenza e la perfezione come si è detto, così gli si attribuiscono
nomi che ne indicano l'essenza qualificata. Quanto ai verbi
ed ai participi significanti il tempo, si dicono di Dio per la ragione
che l'eternità include tutti i tempi: come infatti non possiamo né
concepire né esprimere le realtà semplici e sussistenti se non alla maniera
dei composti, così non possiamo intendere ed esprimere a parole
la semplice eternità che nella maniera delle cose temporali: e
ciò per la connaturalità del nostro intelletto con le cose composte e
temporali. I pronomi dimostrativi poi si applicano a Dio per additarlo
quale oggetto d'intelligenza, non già come oggetto dei sensi;
dal momento infatti che cade sotto la nostra intelligenza, cade anche
sotto la nostra designazione. E così, al modo stesso che applichiamo
a Dio nomi, participi e pronomi dimostrativi, lo possiamo
anche indicare con pronomi relativi.
ARTICOLO
2
Se qualche nome detto di Dio ne significhi l'essenza
SEMBRA che nessun nome detto di Dio ne indichi l'essenza. Infatti:
1. Dice il Damasceno:
"Ognuno dei nomi che si dicono di Dio non
sta a significare quel che egli è secondo l'essenza, ma a dimostrare
quel che non è, o una qualche relazione, oppure qualcuna di quelle
cose che accompagnano la natura o l'operazione".
2. Dionigi afferma:
"Troverai che tutti gli inni dei sacri dottori
che dividono in lodi e manifestazioni gli appellativi di Dio, sono
diretti alle libere produzioni della potenza divina". E ciò significa che
i nomi, usati dai sacri dottori per la divina lode, si distinguono
in rapporto agli effetti che procedono dallo stesso Dio. Ora, ciò che
indica la produzione (o l'effetto) di una cosa, non indica niente di
essenziale della cosa stessa. Dunque i nomi detti di Dio, non esprimono
la sua essenza.
3. Una cosa viene da noi nominata nel modo che la si conosce.
Ora in questa vita noi non conosciamo Dio secondo la sua sostanza.
Dunque neppure i nomi da noi imposti vogliono esprimere la natura
di Dio.
IN CONTRARIO: Dice S. Agostino:
"In Dio è tutt'uno, essere ed essere
forte, o essere sapiente, e qualsiasi altra cosa che vorrai affermare
di quella semplicità, e dalla quale è significata la sua sostanza".
Dunque tutti questi nomi stanno a significare la sostanza (o la natura)
di Dio.
RISPONDO: I nomi che si attribuiscono a Dio in senso negativo o
che significano un suo rapporto con le creature, evidentemente non
esprimono in alcun modo la sua essenza, ma indicano eliminazione
di un qualche cosa da lui, o relazione di lui verso altre cose, o
meglio di altre cose verso di lui. Ma se si tratta di nomi che si
applicano a Dio in modo assoluto e affermativo, come: buono, sapiente
e così via, allora c'è diversità di opinione.
Alcuni han detto che tutti questi nomi, sebbene si dicano di Dio
affermativamente, sono stati trovati piuttosto per eliminare da Dio
qualche cosa, anziché per porre alcunché in lui. Perciò affermano
che quando noi diciamo che Dio è vivente, intendiamo dire che non
è al modo delle cose inanimate; e così andrebbero presi gli altri (nomi).
Così pensava Rabbi Mosè. - Altri poi dicono che tali nomi
sono stati dati per indicare dei rapporti esistenti tra Dio e le sue
creature, in maniera che, quando, p. es., diciamo che Dio è buono, il
senso sarebbe questo: Dio è causa della bontà nelle cose. E così per
tutti gli altri.
Ma né l'una né l'altra di queste opinioni soddisfa, per tre motivi.
Prima di tutto, perché nessuna di esse sarebbe sufficiente ad assegnare
la ragione per cui si dicono di Dio alcuni nomi a preferenza
di altri. Dio infatti come è causa dei beni, così è anche causa
dei corpi: quindi, se col dire "Dio è buono",
nient'altro si vuol significare se non che "Dio è causa del bene",
si dovrebbe poter
dire ugualmente che Dio è corpo, perché è causa dei corpi. Inoltre:
dicendolo corpo, si esclude che sia un ente soltanto in potenza, come
la materia prima. - Secondo, perché ne seguirebbe che tutti i nomi
applicati a Dio, si direbbero di lui per derivazione, come sano si
dice della medicina per derivazione perché significa soltanto che
essa è causa della sanità nell'animale, il quale è detto sano in senso
pieno e inderivato. - Terzo, perché è in contrasto col pensiero di chi
parla di Dio. Difatti chi dice che Dio è vivente, non intende affermare
che semplicemente sia causa della nostra vita, o che differisca dai
corpi inanimati.
Perciò bisogna dire diversamente, che cioè tali nomi significano,
sì, la divina sostanza e si attribuiscono all'essenza di Dio, ma che
lo rappresentano in modo insufficiente. Ed ecco la prova. I vocaboli
significano Dio in base alla conoscenza che di lui ha il nostro intelletto.
Ora, siccome il nostro intelletto conosce Dio attraverso le
creature, lo conoscerà nella misura che le creature glielo rappresentano.
D'altra parte, sopra si è dimostrato che Dio precontiene
in se medesimo tutte le perfezioni delle creature, perché assolutamente
e universalmente perfetto. Cosicché ogni creatura in tanto lo
rappresenta e gli assomiglia, in quanto possiede una qualche perfezione;
non così però da rappresentarlo come un qualcosa della
stessa specie o dello stesso genere, ma come un principio trascendente,
dalla cui forma gli effetti sono ben lontani, ma col quale tuttavia
hanno una certa somiglianza; come (p. es.) le forme dei corpi
inferiori rappresentano la virtù del sole. Tutto ciò fu esposto sopra,
quando si trattò della divina perfezione. Così, dunque, i predetti
nomi significano la divina sostanza, però imperfettamente, come
anche le creature la rappresentano in modo imperfetto.
Sicché, quando si dice
"Dio è buono", non si vuol già dire che
Dio è causa del bene, o che Dio non è cattivo; ma il senso è questo: "quello che noi chiamiamo bontà nelle creature, preesiste in
Dio",
e in modo ben più alto. Quindi a Dio conviene la bontà non perché
è causa del bene; ma piuttosto è tutto il contrario: per il fatto che
è buono effonde la bontà nelle cose; secondo il detto di S. Agostino: "perché Dio è buono, noi
esistiamo".
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il Damasceno dice che tali nomi
non significano quello che Dio è, perché nessuno di essi lo esprime
perfettamente; ma ognuno lo indica imperfettamente, come anche
imperfettamente lo rappresentano le creature.
2. Nella significazione delle parole talora non corrispondono la cosa
da cui si desume un termine e quella per cui si adopera: p. es.: il
latino lapis (pietra) deriva da: laedere pedem, offendere il piede;
però non si adopera per indicare ciò che offende il piede, ma per
significare, una specie di corpi; altrimenti tutto ciò che offende il
piede sarebbe lapis (pietra). Così dunque si deve dire che quei nomi
divini si desumono dagli effetti che derivano dalla divinità; infatti,
come le creature rappresentano Dio, per quanto imperfettamente secondo
partecipazioni diverse di perfezioni, così il nostro intelletto
conosce e nomina Dio secondo ciascuna di queste derivazioni. Tuttavia
non applica (a Dio) questi nomi per indicare le varie derivazioni
quasi che nel dire "Dio è un vivente" volesse intendere "da
Dio deriva la vita"; ma per indicare lo stesso principio delle cose,
in quanto in esso preesiste la vita, sebbene in modo più elevato di
quello che noi possiamo capire ed esprimere.
3. In questa vita noi non possiamo conoscere l'essenza di Dio come
è in se stessa; ma la conosciamo nel modo che si trova rappresentata
nelle perfezioni delle creature. Proprio così la designano i nomi da noi imposti.
ARTICOLO
3
Se qualche nome si dica di Dio in senso proprio
SEMBRA che nessun nome debba dirsi di Dio in senso proprio.
Infatti:
1. Tutti i nomi che diamo a Dio sono presi dalle creature, come
si è detto. Ora, i nomi delle creature si dicono di Dio in senso
metaforico, come quando si dice che Dio è pietra, leone e così via.
Dunque tutti i nomi che si dicono di Dio sono usati in senso metaforico.
2. Nessun nome è detto in senso proprio di colui del quale con più
verità è negato anziché affermato. Ora, tutti questi nomi: buono,
sapiente e simili, con più verità vanno negati piuttosto che affermati
di Dio, come dimostra Dionigi. Dunque nessuno di tali nomi è detto
di Dio in senso proprio.
3. I nomi dei corpi non si predicano di Dio se non metaforicamente,
essendo egli incorporeo. Ora, tutti questi nomi implicano
delle condizioni materiali: includono infatti nel loro significato
l'idea di tempo, di composizione e di altre simili cose, che sono
condizioni proprie dei corpi. Dunque tutti questi nomi si predicano di
Dio metaforicamente.
IN CONTRARIO: Scrive S. Ambrogio:
"Ci sono dei nomi che ci mostrano
all'evidenza le proprietà della divinità; altri che esprimono
la chiara verità della maestà divina; altri poi che si dicono di Dio
in senso traslato per similitudine". Non tutti i nomi, dunque, si dicono
di Dio metaforicamente; ma alcuni si dicono in senso proprio.
RISPONDO: Come abbiamo già detto, noi conosciamo Dio dalle perfezioni
che egli comunica alle creature; le quali perfezioni si ritrovano
in Dio in grado ben più eminente che nelle creature. Ma il
nostro intelletto le apprende nel modo che si trovano nelle creature;
e come le apprende, così le esprime a parole. Nei nomi dunque che
attribuiamo a Dio, ci son da considerare due cose: cioè, le perfezioni
stesse significate, come la bontà, la vita, ecc., e il modo di significarle.
Riguardo dunque a ciò che tali nomi significano, convengono
a Dio in senso proprio, e anzi più proprio che alle stesse creature,
e si dicono di lui primariamente. Quanto invece al modo di
significarle, non si dicono di Dio in senso proprio, perché hanno un
modo di significarle che conviene alle creature.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Certi nomi esprimono le perfezioni
comunicate da Dio alle cose create in maniera che lo stesso modo
imperfetto, col quale la perfezione divina è partecipata dalla creatura,
è incluso nello stesso significato del termine, come, p. es., la
parola pietra significa un essere che esiste (solo) nella materia: e
tali nomi non si possono attribuire a Dio se non metaforicamente.
Altri nomi invece significano le stesse perfezioni in modo assoluto,
senza che alcun limite di partecipazione sia incluso nel loro
significato, come ente, buono, vivente e simili: e questi si dicono di Dio
in senso proprio.
2. Dionigi dice che tali nomi si debbono negare a Dio precisamente
per questo, perché ciò che è espresso nel nome non compete a Dio
nel modo col quale il nome lo significa, ma in una maniera più sublime.
Perciò Dionigi nel medesimo punto dice che Dio è al di sopra
di ogni sostanza e di ogni vita.
3. Questi nomi che si dicono di Dio in senso proprio, importano
condizioni corporali, non nello stesso significato del nome, ma quanto
al modo di significare. Quelli invece che si applicano a Dio in senso
metaforico, implicano (materialità o) condizione corporale nello
stesso loro significato.
ARTICOLO 4
Se i nomi che si danno a Dio siano sinonimi
SEMBRA che i diversi nomi che si danno a Dio siano dei sinonimi.
Infatti:
1. Si chiamano sinonimi quei termini che significano in tutto la
medesima cosa. Ora, i nomi che si dicono di Dio indicano, in tutto,
la medesima cosa in Dio, perché la bontà di Dio è la sua essenza,
come anche la sapienza. Dunque tutti questi termini sono sinonimi.
2. A chi dicesse che questi nomi significano in realtà la stessa
cosa, però con una diversità di concetti, si ribatte: un concetto, a
cui non corrisponde qualcosa di reale, è vano: se dunque questi concetti
sono molti e la realtà è una, pare che tali concetti siano vani.
3. Ciò che è uno realmente e concettualmente, è più uno di ciò che
è uno realmente e molteplice concettualmente. Ora, Dio è uno al
massimo grado. Dunque pare che non sia uno realmente e molteplice
concettualmente. E così i nomi detti di Dio non indicano concetti
diversi, e perciò sono sinonimi.
IN CONTRARIO: Termini sinonimi, uniti insieme, non sono che un
gioco di parole, come se si dicesse: La veste è un indumento.
Se dunque tutti i nomi detti di Dio sono sinonimi, non si potrà più
dire convenientemente Dio buono ed espressioni consimili; eppure
sta scritto in Geremia: "O fortissimo, o grande, o potente, il cui
nome è il Signore degli eserciti".
RISPONDO: I nomi che si danno a Dio non sono sinonimi. Asserzione,
questa, facile a provarsi se dicessimo che questi nomi sono stati
introdotti per escludere qualche cosa da Dio, o per designare il suo
rapporto di causa verso le creature: ché allora sotto questi nomi vi
sarebbero diverse nozioni secondo le varie cose negate, o secondo i
diversi effetti che si hanno di mira. Ma anche stando a quel che
abbiamo detto, che cioè tali nomi significhino, per quanto imperfettamente,
la sostanza divina, si dimostra facilmente, da quanto precede,
che contengono idee diverse. E invero, l'idea espressa dal nome
è la concezione che l'intelletto si fa della cosa indicata dal nome.
Ora, il nostro intelletto, siccome conosce Dio per mezzo delle creature,
per conoscere Dio forma dei concetti proporzionali alle perfezioni
derivanti da Dio nelle creature; le quali perfezioni in Dio preesistono
allo stato di unità e semplicità; ma nelle creature son ricevute
divise e molteplici. Come dunque alle diverse perfezioni delle
creature corrisponde un unico principio semplice, rappresentato in
maniera varia e multipla dalle diverse perfezioni delle creature; così
alle concezioni molteplici e varie del nostro intelletto corrisponde
un unico oggetto assolutamente semplice, conosciuto imperfettamente
secondo tali concezioni. E perciò i nomi attribuiti a Dio, sebbene
significhino realmente una sola cosa, tuttavia, siccome la significano
in concetti molteplici e diversi, non sono sinonimi.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. E così è sciolta la prima difficoltà.
Infatti si chiamano sinonimi i nomi che significano una sola cosa secondo
un unico concetto. Ma quelli che esprimono nozioni diverse di
una identica realtà non significano primariamente e direttamente
una medesima cosa; perché il nome non indica la realtà se non mediante
la concezione dell'intelletto, come si è dimostrato.
2. I molteplici sensi di questi termini non sono falsi e vani, perché
a tutti corrisponde una realtà semplice rappresentata da essi in
modo vario ed imperfetto.
3. Dipende dalla perfetta unità di Dio che si trovi in lui in maniera
semplice e unitaria ciò che è molteplice e diviso nelle cose. Ed
è per questo che egli è uno realmente, e molteplice secondo i concetti (che
ne abbiamo); perché il nostro intelletto lo apprende in
molteplici modi, come in molteplici modi le cose lo rappresentano.
ARTICOLO
5
Se i nomi attribuiti a Dio e alle creature siano loro attribuiti
in senso univoco
SEMBRA che i nomi attribuiti a Dio e alle creature siano loro attribuiti
in senso univoco. Infatti:
1. Ogni equivoco si riduce all'univoco, come il multiplo all'uno.
Difatti, se è vero che la parola cane è applicata equivocamente
all'animale che abbaia e all'animale marino, bisogna pure che di alcuni
animali sia detto in senso univoco, cioè di tutti i latranti,
altrimenti bisognerebbe procedere all'infinito (per trovare il significato
originale). Ora, esistono degli agenti univoci, i quali concordano
con i loro effetti nel nome e nella definizione, come l'uomo (il quale)
genera l'uomo; ed esistono altri agenti equivoci, come il sole (il quale)
causa il caldo, pur non essendo esso stesso caldo se non
in senso equivoco. Sembra dunque che il primo agente, al quale si
riducono tutti gli altri agenti, sia un agente univoco. E così quello
che si dice di Dio e delle creature è detto in senso univoco.
2. Tra i termini equivoci non si dà somiglianza alcuna. Siccome
dunque qualche somiglianza c'è tra la creatura e Dio, secondo il
detto della Genesi: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza";
sembra che qualcosa si possa affermare di Dio e delle creature univocamente.
3. La misura, al dire di Aristotele, è omogenea al misurato. Ora,
Dio, come il medesimo afferma, è la prima misura di tutti gli esseri.
Dunque Dio è omogeneo alle creature, e quindi qualche cosa si può
dire di Dio e delle creature in senso univoco.
IN CONTRARIO: 1. Tutto ciò che si predica di più cose sotto il medesimo
nome, ma non secondo lo stesso concetto, si predica di esse in
senso equivoco. Ma nessun nome si applica a Dio secondo il
medesimo concetto con cui si applica alle creature; infatti la sapienza
nelle creature è qualità, ma non in Dio (nel quale è sostanza); ora,
mutato il genere di una cosa, ne resta mutato anche il concetto, dal
momento che il genere fa parte della definizione. E la stessa ragione
vale per tutte le altre cose. Dunque qualsiasi cosa si dica di Dio e
delle creature, si dice in senso equivoco.
2. Dista più Dio dalle creature che non le creature tra loro scambievolmente.
Ora, a motivo della distanza di alcune creature, avviene
che niente si possa dire di esse in senso univoco, come è di
quelle che non convengono in nessun genere. Dunque molto meno
si può affermare cosa alcuna in senso univoco di Dio e delle
creature: ma tutto di essi si predica in senso equivoco.
RISPONDO: È impossibile che alcuna cosa si predichi di Dio e delle
creature univocamente. Poiché ogni effetto, che non è proporzionato
alla potenza della causa agente, ritrae una somiglianza dell'agente
non secondo la stessa natura, ma imperfettamente; in maniera che
quanto negli effetti si trova diviso e molteplice, nella causa è semplice
e uniforme; così il sole mediante un'unica energia produce
nelle cose di quaggiù forme molteplici e svariate. Allo stesso modo,
come si è detto, tutte le perfezioni delle cose, che nelle creature sono
frammentarie e molteplici, in Dio preesistono in semplice unità.
Così, dunque, quando un nome che indica perfezione si applica a
una creatura, significa quella perfezione come distinta da altre, secondo
la nozione espressa dalla definizione: p. es., quando il termine
sapiente lo attribuiamo all'uomo, indichiamo una perfezione distinta
dall'essenza dell'uomo e dalla sua potenza e dalla sua esistenza e
da altre cose del genere. Quando, invece, attribuiamo questo nome
a Dio, non intendiamo indicare qualche cosa di distinto dalla sua
essenza, dalla sua potenza o dal suo essere. Per conseguenza, applicato
all'uomo, il termine sapiente circoscrive, in qualche modo,
e racchiude la qualità che esprime; non così se applicato a Dio, ma
lascia (in tal caso) la perfezione indicata senza delimitazione e nell'atto
di oltrepassare il significato del nome. Quindi è chiaro che il
termine sapiente si dice di Dio e dell'uomo non secondo l'identico
concetto (formale). E così è di tutti gli altri nomi. Perciò nessun
nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature.
Ma neanche in senso del tutto equivoco, come alcuni hanno affermato.
Perché in tal modo niente si potrebbe conoscere o dimostrare
intorno a Dio partendo dalle creaulre; ma si cadrebbe continuamente
nel sofisma chiamato "equivocazione". E ciò sarebbe in
contrasto sia con i filosofi, i quali dimostrano molte cose su Dio, sia
con l'Apostolo, il quale dice: "le perfezioni invisibili di Dio,
comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili".
Si deve dunque concludere che tali termini si affermano di Dio e
delle creature secondo analogia, cioè proporzione. E ciò avviene in
due maniere: o perché più termini dicono ordine a un termine unico
(originario e inderivato) - come sano si dice della medicina e dell'orina,
in quanto che l'una e l'altra dicono un certo ordine e un
rapporto alla sanità dell'animale, questa come indice, quella come
causa - oppure perché un termine presenta (rispondenza o) proporzione
con un altro, come sano si dice della medicina e dell'animale,
in quanto la medicina è causa della sanità che è nell'animale. E in
tal modo alcuni nomi si dicono di Dio e delle creature analogicamente,
e non in senso puramente equivoco, e neppure univoco. Infatti noi
non possiamo parlare di Dio se non partendo dalle creature,
come più sopra abbiamo dimostrato. E così qualunque termine
si dica di Dio e delle creature, si dice per il rapporto che le creature
hanno con Dio, come a principio o causa, nella quale preesistono
in modo eccellente tutte le perfezioni delle cose.
E questo modo di comunanza sta in mezzo tra la pura equivocità e
la semplice univocità, perché nei nomi detti per analogia non vi è una
nozione unica come negli univoci, né totalmente diversa, come negli
equivoci; ma il nome che analogicamente si applica a più soggetti
significa diverse proporzioni riguardo a una medesima cosa; così
sano detto dell'orina, indica il segno della sanità; detto della medicina
invece significa la causa della stessa sanità.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sebbene logicamente sia necessario
ridurre i termini equivoci a quelli univoci, tuttavia nell'ordine delle
cause l'agente non univoco precede necessariamente l'agente univoco.
Infatti l'agente non univoco è causa universale di tutta la
specie, come il sole è causa della generazione di tutti gli uomini.
L'agente univoco invece non è causa agente universale di tutta la
specie (ché altrimenti sarebbe causa di se stesso, essendo contenuto
sotto la specie): ma è causa particolare rispetto a tale individuo in
cui assicura la partecipazione della specie. La causa dunque universale
di tutta una specie non è un agente univoco. Ora, la causa universale è
anteriore a quella particolare. - Tale agente universale poi,
sebbene non sia univoco, non è tuttavia del tutto equivoco, perché
così non causerebbe un qualche cosa di simile a sé; ma si può chiamare
agente analogico: così in logica i vari attributi univoci si riducono
a un termine primo, non univoco, ma analogico, che è l'ente.
2. La somiglianza della creatura con Dio è imperfetta: non lo rappresenta
neppure secondo un medesimo genere, come si è provato altrove.
3. Dio (come causa) è misura (degli enti), ma è una misura eccedente
ogni loro proporzione. Per cui non è necessario che Dio e le creature siano contenute sotto un medesimo genere.
Gli argomenti in contrario provano che i predetti nomi non si dicono
di Dio e delle creature univocamente; ma non provano che
si dicano equivocamente.
ARTICOLO
6
Se i nomi si dicano delle creature prima che di Dio
SEMBRA che i nomi si dicano delle creature prima che di Dio. Infatti:
1. Noi nominiamo le cose secondo che le conosciamo, essendo le
parole, a detta di Aristotele, "segni dei concetti". Ora, noi
conosciamo prima la creatura che Dio: quindi i nomi da noi imposti
prima convengono alle creature e poi a Dio.
2. Secondo Dionigi
"noi nominiamo Dio dalle creature". Ma i
nomi che noi dalle creature trasferiamo in Dio, si dicono prima delle
creature che di Dio, come le parole leone, pietra e simili. Dunque
tutti i nomi che si attribuiscono a Dio e alle creature, si dicono
prima delle creature che di Dio.
3. Al dire di Dionigi, tutti i nomi che sono comuni a Dio e alle
creature, si riferiscono a Dio come alla causa di tutti gli esseri.
Ora, un termine dato, per ragione di causalità, si attribuisce alla
causa in seconda linea; p. es., sano prima si dice dell'animale, e poi
della medicina, la quale è causa della sanità. Dunque tutti questi
nomi si dicono delle creature prima che di Dio.
IN CONTRARIO: Dice S. Paolo:
"Io piego le ginocchia davanti al
Padre del Signore nostro Gesù Cristo, da cui ogni paternità e nei
cieli e sulla terra prende nome". E la stessa ragione vale per tutti
gli altri nomi che si dicono di Dio e delle creature. Dunque tali
nomi si dicono di Dio prima che delle creature.
RISPONDO: Relativamente ai termini che si dicono di più cose per
analogia, è necessario che tutti si dicano in ordine ad una sola cosa;
e quindi tale cosa deve esser posta nella definizione di tutte le altre.
E poiché la nozione espressa dal nome è la definizione, come dice
Aristotele, bisogna che tal nome si dica primariamente di quella
prima cosa che è posta nella definizione delle altre, e secondariamente
delle altre a seconda che si avvicinano più o meno alla prima:
come il termine sano, che si dice dell'animale, entra nella definizione
del sano detto della medicina, la quale è detta sana in quanto
causa la sanità nell'animale; come anche (entra) nella definizione di
sano detto dell'orina, la quale si dice sana in quanto è un indice della
sanità dell'animale.
Così dunque tutti i nomi che si dicono di Dio metaforicamente, si
dicono delle creature prima che di Dio; perché applicati a Dio non
altro significano che delle somiglianze con tali creature. Così ridere,
detto del prato, non significa altro che questo: che il prato quando
si ricopre di fiori offre un aspetto di bellezza somigliante a quello
dell'uomo quando sorride, secondo una somiglianza di proporzione;
parimente, il termine leone applicato a Dio, questo solo vuol significare:
che Dio nelle sue opere si comporta fortemente come il leone
si comporta nelle sue. E così si capisce che il significato di tali nomi
non si può definire, nella loro applicazione a Dio, se non dipendentemente
dall'applicazione che se ne fa alle creature.
Trattandosi poi degli altri nomi, che non si applicano a Dio metaforicamente,
varrebbe la stessa ragione se si dicessero di Dio soltanto
secondo la sua causalità, come alcuni hanno sostenuto. Ché allora
col dire Dio è buono si vorrebbe signiflcare soltanto che Dio è causa
della bontà della creatura. Quindi questo nome buono detto di Dio
conterrebbe nel suo significato la bontà della creatura, e perciò buono
si direbbe della creatura prima che di Dio. Ma sopra abbiamo dimostrato
che tali nomi non si dicono di Dio soltanto in ragione della
sua causalità, ma anche della sua essenza, perché quando si dice
che Dio è buono, oppure è sapiente, non solo si vuol dire che egli è
causa della sapienza o della bontà, ma che e bontà e sapienza
preesistono in lui in modo più eminente. Quindi, bisogna dire che se si
considera il significato intrinseco dei termini, essi si applicano a Dio
prima che alle creature: perché quelle perfezioni (indicate dai nomi)
provengono alle creature da Dio. Però, se si considera la loro origine,
tutti i nomi si attribuiscono primieramente alle creature, che
si conoscono per prime. Perciò anche il modo di significare (dei nomi) è quello
caratteristico delle creature, come si è detto sopra.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ. 1. Questa prima difficoltà vale relativamente
alla derivazione del nome.
2. È ben differente il caso dei nomi attribuiti a Dio metaforicamente
da quello dei nomi attribuiti propriamente, come si è detto.
3. Questa obiezione andrebbe bene, se tali nomi si attribuissero a
Dio soltanto a motivo della sua causalità e non essenzialmente, cioè
come sano si dice della medicina.
ARTICOLO
7
Se i nomi che importano relazione alle creature si attribuiscano a Dio
dall'inizio del tempo
SEMBRA che i nomi che importano relazione alle creature, non si
attribuiscano a Dio dall'inizio del tempo. Infatti:
1. Si dice comunemente che tali nomi significano la sostanza divina.
Per questo anche S. Ambrogio scrive che il nome Signore designa
la potenza, la quale è sostanza divina; e la parola Creatore
indica l'azione di Dio, la quale è la sua stessa essenza. Ora, la
sostanza divina non è temporale, ma eterna. Dunque questi nomi non
si dicono di Dio dall'inizio del tempo, ma dall'eternità.
2. Tutto ciò cui conviene qualche cosa a cominciare da un certo
tempo, può dirsi fatto: così un essere che è bianco da un certo
tempo, si è fatto bianco. Ma a Dio ripugna di esser fatto. Dunque
niente si dice di Dio a cominciare dal tempo.
3. Se alcuni nomi si dicono di Dio dall'inizio del tempo per la ragione
che importano relazione alle creature, la stessa ragione dovrebbe
valere per tutti i nomi che implicano relazione alle creature.
Invece alcuni nomi che importano relazione alle creature si dicono
di Dio da tutta l'eternità: infatti, Dio dall'eternità conosce ed ama
la creatura, secondo il detto della Scrittura: "d'un amore eterno ti
ho amato". Dunque anche gli altri nomi, che importano relazione
alle creature, come Signore e Creatore, sono da attribuirsi a Dio
dall'eternità.
4. Questi nomi importano relazione. Bisogna quindi che tale relazione
sia qualche cosa o in Dio o nella creatura soltanto. Ma non
può essere che sia soltanto nella creatura, perché così Dio si denominerebbe
Signore a motivo della relazione opposta che è nelle creature: ora
niente si denomina dal suo contrario. Resta dunque che
tale relazione è qualche cosa anche in Dio. Ma in Dio nulla vi è
di temporale, essendo egli al di sopra del tempo. Dunque pare che
tali nomi non siano da attribuirsi a Dio a cominciare dal tempo.
5. Un attributo relativo si ha in base a una relazione; così avremo
Dominus (Signore) da dominio, come bianco da bianchezza. Se dunque
la relazione di dominio non è in Dio realmente, ma solo idealmente,
ne viene che Dio non è realmente Signore (Dominus). Il che è falso.
6. Quando si tratta di entità relative che per natura non son
chiamate a stare insieme, l'una può esistere senza che esista l'altra:
così lo scibile esiste anche se non esiste la scienza, come osserva
Aristotele. Ora, i relativi che si affermano di Dio e delle creature
non sono fatti per stare insieme. Dunque qualche cosa può attribuirsi
a Dio in relazione alle creature ancorché la creatura non esista.
E così questi nomi, Signore e Creatore, si dicono di Dio dall'eternità
e non dall'inizio del tempo.
IN CONTRARIO: S. Agostino dice che questa denominazione relativa
di Signore conviene a Dio dall'inizio del tempo.
RISPONDO: Certi nomi che importano relazione alla creatura, sono
detti di Dio (a cominciare) dal tempo e non dall'eternità.
Per chiarire la cosa ricordiamo che alcuni sostennero che la relazione
non ha un'esistenza nella realtà, ma solo nella mente. Però la
falsità di questa opinione appare chiaramente dal fatto stesso che
le cose hanno tra loro un certo ordine e un certo rapporto in forza
della loro stessa natura. Dobbiamo invece osservare che, richiedendo
la relazione due estremi, vi sono tre modi in cui essa può essere un
ente reale o di ragione. Talora infatti per parte di tutti e due gli
estremi è solo ente di ragione, quando cioè non vi può essere ordine o
rapporto tra diverse cose che secondo la sola apprensione della mente,
come quando si dice che una cosa è identica a se stessa. E invero,
la ragione nel concepire due volte una cosa, la può considerare
come due cose; e così scorge un certo rapporto di essa con se medesima.
Lo stesso avviene di tutte le relazioni che sono tra l'ente ed il
non-ente: relazioni che la mente forma in quanto concepisce il niente
come un estremo della relazione. L'identica cosa si verifica di tutte
le relazioni che dipendono dall'atto della ragione, come il genere e
la specie e simili.
Alcune relazioni invece sono vere entità reali quanto all'uno e
all'altro estremo: quando cioè la relazione nasce tra due cose per
una realtà comune all'una e all'altra. La cosa appare chiaramente
in tutte le relazioni basate sulla quantità, come il grande e il
piccolo, il doppio e la metà e simili: infatti la quantità si trova realmente
nei due estremi. Lo stesso vale per le relazioni che risultano
dall'azione e dalla passione, come la relazione del motore e del mobile,
del padre e del figlio, e simili.
Talora infine la relazione in un estremo è entità reale, e nell'altro
entità di ragione soltanto. E ciò accade ogni qual volta i due estremi
non sono del medesimo ordine. Così la sensazione e la scienza si riferiscono
all'oggetto sensibile e a quello conoscibile, i quali oggetti
in quanto sono cose esistenti nella realtà concreta sono estranei all'ordine
intenzionale del sentire e del conoscere: e quindi nell'intelletto
che conosce e nel senso che percepisce c'è una relazione reale,
in quanto che sono ordinati a conoscere e sentire le cose; ma le cose,
considerate in se stesse, sono estranee a tale ordine. Perciò in esse
non c'è relazione reale al conoscere e al sentire, ma soltanto di ragione,
in quanto l'intelletto le apprende come termini correlativi della
scienza e della sensazione. Perciò Aristotele dice che queste non si
chiamano termini di relazione nel senso che si riferiscano ad altre
cose, ma perché altre cose si riferiscono ad esse. È come della colonna
la quale si dice che è destra unicamente perché si trova alla
destra dell'animale: quindi la relazione di posizione non è realmente
nella colonna, ma nell'animale.
Siccome dunque Dio è al di fuori di tutto l'ordine creato, e tutte
le creature dicono ordine a lui e non inversamente, è evidente che
le creature dicono rapporto reale a Dio; ma in Dio non vi è una sua
relazione reale verso le creature; vi è solo una relazione di ragione,
in quanto che le cose dicono ordine a lui. E così niente impedisce
che tali nomi implicanti relazione con le creature si attribuiscano a
Dio dall'inizio del tempo: non per un qualche cambiamento avvenuto
in lui, ma per una mutazione della creatura; come la colonna
diviene destra rispetto all'animale, senza che in essa si sia verificato
un cambiamento, ma per lo spostarsi dell'animale.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Tra i nomi che importano relazione
alcuni sono imposti per significare (espressamente) le stesse relazioni,
come padrone e servo, padre e figlio, e simili: e tali nomi si dicono
relativi secondo l'essere. Altri invece stanno a significare delle
cose, alle quali sono connesse delle relazioni, come motore e mobile,
capo e capeggiato, e simili: e questi si dicono relativi secondo la
denominazione. Ebbene, una tale distinzione bisogna applicarla
ai nomi di Dio. Difatti alcuni di essi non esprimono che il rapporto
stesso (di Dio) alle creature, come Dominus (Signore). E tali nomi
non indicano direttamente, ma solo indirettamente l'essenza divina
in quanto la presuppongono: come il dominio presuppone la potenza,
che è la (stessa) essenza di Dio. Altri nomi invece esprimono
direttamente l'essenza divina, e solo di conseguenza importano relazione;
come Salvatore, Creatore e simili, i quali esprimono (direttamente)
l'azione di Dio, che è la sua essenza. Gli uni e gli altri tuttavia si possono dire di Dio dall'inizio del tempo se si considera
la relazione esplicita o implicita che importano, non già in quanto
direttamente o indirettamente indicano l'essenza divina.
2. Come le relazioni, che si dicono di Dio (a cominciare) dal
tempo, non sono in Dio se non secondo il nostro modo di concepire;
così anche il farsi e l'esser fatto non si dice di Dio che secondo la
nostra ragione, senza che nessun mutamento sia avvenuto in lui,
come quando si dice: "Signore, ti sei fatto rifugio per noi!".
3. L'atto dell'intelletto e della volontà rimane in colui che lo
compie, perciò i nomi che esprimono le relazioni derivanti dall'azione
dell'intelletto o della volontà si dicono di Dio dall'eternità. Quelli
invece che derivano da azioni terminanti, secondo il nostro modo di
intendere, ad effetti esteriori, si applicano a Dio (a cominciare) dal
tempo, come Salvatore, Creatore, e simili.
4. Le relazioni espresse da quei nomi che si applicano a Dio (a
cominciare) dal tempo, sono in lui soltanto secondo il nostro modo
di pensare: invece le relazioni opposte si trovano nelle creature realmente.
Né vi è ripugnanza alcuna nel fatto che Dio si denomini da
relazioni che realmente esistono solo nelle creature; in questo senso
per altro, che la nostra mente concepisce il loro correlativo in Dio. In
maniera che Dio si potrà dire relativo alle creature nel senso che le
creature dicono relazione a lui: così, come dice il Filosofo, lo scibile è
detto relativo (all'intelligenza che conosce), perché la scienza (di chi
conosce) si riferisce ad esso.
5. Siccome Dio dice relazione alla creatura sotto il
medesimo rapporto
per cui la creatura dice relazione a Dio, dal momento che la
relazione di soggezione si trova realmente nella creatura, ne segue
che Dio è il Signore (Dominus) non solo secondo la nostra ragione
ma realmente. E infatti egli è il Signore nel modo stesso in cui la
creatura gli è soggetta.
6. Per sapere se dei relativi siano o non siano coesistenti per natura,
non bisogna considerare l'ordine delle cose denominate da
quei relativi, ma il significato degli stessi relativi. Se, infatti, uno
dei termini nel suo concetto include l'altro, e viceversa, allora i due
termini sono coesistenti, come il doppio e la metà, il padre e il figlio,
e così via. Se invece l'uno nel suo concetto include l'altro, ma non
viceversa, allora non sono coesistenti per natura. Così è dei termini
conoscenza e conoscibile. Ed infatti, conoscibile significa qualche
cosa di potenziale: conoscenza invece dice qualche cosa di abituale
o di attuale: quindi il conoscibile, stando con rigore al significato del
termine, preesiste alla conoscenza. Ma se il conoscibile si considera
(conosciuto) in atto, allora coesiste con la scienza parimente in atto:
perché nessuna cosa è conosciuta, se di essa non si ha conoscenza.
Sebbene dunque Dio sia anteriore alle creature, tuttavia, poiché nel
concetto di Dominus (Signore o Padrone) è incluso l'avere un servo,
e viceversa, questi due relativi, Dominus e servo, sono per natura
simultanei. Quindi Dio non fu Signore (Dominus) prima che
avesse la creatura a sé soggetta.
ARTICOLO
8
Se il
nome Dio sia nome che indica natura
SEMBRA che il nome Dio non sia nome che indica natura. Infatti:
1. Dice il Damasceno che
"Dio viene da
θεειν, cioè da correre,
e dal soccorrere tutte le cose; o da αιθειν ossia da ardere (perché
il nostro Dio è un fuoco che consuma ogni ingiustizia); oppure
da θεασθαι, cioè dal vedere, tutte le
cose". Ora, tutto ciò appartiene
all'operazione. Quindi il nome Dio esprime l'operazione (di Dio)
non la natura.
2. Una cosa da noi viene nominata secondo che da noi è conosciuta.
Ora, la divina natura è da noi ignorata. Dunque questo nome
Dio non significa la divina natura.
IN CONTRARIO: S. Ambrogio afferma che Dio è nome che esprime la natura.
RISPONDO: Non sempre s'identifica la cosa che ha dato origine a
una parola con quella che la parola viene destinata a significare. Infatti,
come conosciamo la sostanza di una cosa dalle sue proprietà o
dalle sue operazioni, così talora la nominiamo da una sua operazione
o proprietà; p. es., noi nominiamo l'essenza della pietra (lapide) da
una sua azione, perché lede il piede; tuttavia questo nome non è imposto
per significare tale azione, ma per designare l'essenza della
pietra. Trattandosi invece di cose che ci sono note in se stesse, come
il calore, il freddo, la bianchezza e simili, per denominarle non ci
serviamo di altre cose: in tali casi s'identifica l'oggetto indicato
dalla parola con la sua origine etimologica.
Siccome, dunque, Dio non ci è noto nella sua natura, ma si viene
a conoscere attraverso le sue operazioni o effetti, da questi noi lo
possiamo denominare, come si è già detto. Quindi questo nome Dio
designa una certa operazione, se si bada alla sua origine. Infatti
esso è desunto dall'universale provvidenza delle cose: poiché tutti
coloro che parlano di Dio, intendono chiamare Dio colui che ha
l'universale provvidenza delle cose. Per cui Dionigi dice che "la
deità è quella che guarda tutto con provvidenza e bontà perfetta".
Il nome Dio da tale operazione deriva, ma è destinato ad esprimere
la divina natura.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Tutto quel che dice il Damasceno si
riferisce alla provvidenza dalla quale il nome Dio deriva il suo
significato.
2. Allo stesso modo che noi possiamo conoscere la natura di una
cosa dalle sue proprietà e dai suoi effetti, così la possiamo indicare
con un nome. Perciò, siccome noi possiamo conoscere in se stessa la
natura della pietra per mezzo di una sua proprietà, sapendo che
cosa è la pietra; questo nome pietra indica la natura della pietra,
quale è in se stessa: esprime infatti la definizione della pietra, e la
definizione ci dice quello che la pietra è. Il concetto infatti che viene
espresso dal nome è la definizione, come dice Aristotele. Ora, dagli
effetti divini non possiamo conoscere la natura di Dio come è in se
stessa, fino al punto di saperne la definizione; ma la conosciamo per
via di eminenza, di causalità e di negazione, come abbiamo già
detto. Solo in tal modo il termine Dio significa la natura divina.
Questo nome infatti serve a indicare un essere che è al di sopra di
tutto, che è il principio di tutto e che è diverso (essenzialmente) da
tutto. Questo è l'essere che intendono designare coloro che pronunziano
il nome di Dio.
ARTICOLO
9
Se il nome Dio sia comunicabile
SEMBRA che il nome Dio sia comunicabile. Infatti:
1. A chiunque è comunicata la cosa espressa dal nome, viene comunicato
anche il nome. Ora, il nome Dio, come abbiamo visto, indica
la divina natura, la quale è comunicabile ad altri, secondo il
detto dell'Apostolo Pietro: "Egli ha donato a noi grandissime e preziose
promesse, affinché per mezzo di queste diventiamo partecipi
della natura divina". Il nome Dio è dunque comunicabile.
2. Solo i nomi propri non sono comunicabili. Ora, il nome Dio
non è un nome proprio, ma è un appellativo comune, come appare
chiaro dal fatto che si adopera al plurale, secondo il detto dei Salmi: "Io
ho detto: Voi siete dei". Dunque il termine Dio è un nome comunicabile.
3. Questo nome trae la sua origine da un'operazione divina, come
abbiamo detto. Ora, tutti gli altri nomi, che si attribuiscono a Dio e
derivano dalle sue operazioni o dai suoi effetti, sono comunicabili,
come buono, sapiente e simili. Dunque anche il nome Dio è comunicabile.
IN CONTRARIO: È detto nella Sapienza:
"Imposero alle pietre e al
legno l'incomunicabile nome": e ivi si parla del nome della divinità.
Dunque il termine Dio è un nome incomunicabile.
RISPONDO: Un nome in due modi può essere comunicabile: in senso
proprio o per (accostamento o) somiglianza. Nome comunicabile in
senso proprio è quello che si attribuisce a più cose secondo tutta
l'estensione del suo significato; comunicabile per un accostamento
è quello che si attribuisce ad altri esseri per qualcuno dei vari
elementi inclusi nel suo significato. P. es., il termine leone in senso
proprio è detto di tutti quegli animali nei quali si riscontra la natura
espressa da tale nome: per somiglianza (o analogia) si attribuisce
a tutti gli individui i quali partecipano alcunché di leonino, come
l'audacia o la fortezza, per cui si dicono metaforicamente leoni.
Per sapere poi quali nomi siano comunicabili in senso proprio,
bisogna notare che ogni forma esistente in un soggetto singolare,
da cui riceve la sua individuazione, è comune a più individui o realmente
o almeno secondo la considerazione della nostra mente: p. es.,
la natura umana è comune a più individui realmente e secondo il
nostro modo di concepire, mentre la natura del sole non è comune
a più individui in realtà, ma solo secondo il nostro modo di concepire,
poiché la natura del sole possiamo supporla attuata in più
soggetti. E ciò perché la nostra mente concepisce la natura di ciascuna
specie astraendo dal singolare: quindi esistere in un solo
individuo, o in più, non rientra nel concetto che noi ci formiamo di
una natura specifica: perciò, salvo restandone il concetto, ogni natura
specifica si può pensare attuata in più soggetti. Il singolare,
invece, per il fatto che è singolare, è distinto da ogni altra realtà.
Quindi ogni nome imposto a significare il singolare è incomunicabile
e secondo la realtà e secondo il nostro modo di concepire: non
può infatti neppur venire in mente la molteplicità di questo determinato
individuo. Sicché nessuno dei nomi che designano l'individuo è
comunicabile a più soggetti in senso proprio, ma solo in senso
figurato; così, p. es., uno può esser detto un Achille, in senso metaforico,
in quanto possiede qualcuna delle proprietà di Achille, cioè
il coraggio.
Ora, le forme che non
vengono individuate da un qualche soggetto,
ma da se medesime (perché cioè sono forme sussistenti), se
venissero concepite (da noi) quali sono in se stesse, non si potrebbero
dire comunicabili né realmente, né secondo il nostro modo di intendere;
tutt'al più (sarebbero comunicabili) per analogia, come si è
detto degli individui. Però siccome noi non possiamo conoscere le
forme semplici per sé sussistenti come esse sono, ma le conosciamo
al modo degli esseri composti aventi forma nella materia, allora,
come abbiamo detto, diamo loro dei nomi concreti che esprimono la
natura (come fosse attuata) in qualche soggetto. Quindi, per quanto
concerne la questione dei nomi, vale la stessa ragione per i nomi che
noi usiamo per indicare la natura delle cose composte e per quelli
che adoperiamo per significare le nature semplici sussistenti.
Allora, siccome il termine Dio è preso a significare la natura divina,
come abbiamo già detto; e siccome, d'altra parte, la natura
divina non è moltiplicabile, come abbiamo dimostrato; ne viene che
questo nome Dio è realmente incomunicabile, ma è comunicabile
secondo una (falsa) opinione, come sarebbe comunicabile il nome
sole secondo l'opinione di coloro che ammettessero più soli. In questo
senso dice S. Paolo: "Voi servivate a quelli che per natura
non sono dei"; e la Glossa soggiunge: "non sono dei per natura,
ma secondo l'opinione degli uomini". - Nondimeno il nome Dio è
comunicabile, se non secondo tutta l'estensione del suo significato,
almeno in parte, per un certo (accostamento o) somiglianza: talché
si potranno chiamare dei coloro che partecipano un qualche cosa di
divino a modo di somiglianza, secondo le parole dei Salmi: "Io ho
detto: Voi siete dei".
Ma se ci fosse un nome posto a significare Dio non sotto l'aspetto
di natura, ma sotto quello di supposito (individuale), allora un tal
nome sarebbe del tutto incomunicabile: tale è forse presso gli Ebrei
il Tetragramma. Sarebbe lo stesso che uno desse al sole il suo nome
per indicare (non la natura dell'astro ma) questo (corpo celeste) in
particolare.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La natura divina non è comunicabile
se non secondo la partecipazione di una somiglianza.
2. Il nome Dio è un appellativo e non un nome proprio, perché
significa la natura divina come se si trovasse in un soggetto che
la possiede; sebbene Dio, in realtà, non sia né un essere universale,
né un essere particolare. Difatti i nomi non seguono il modo di essere
che si trova nelle cose, ma il modo di essere che hanno nella
nostra cognizione. E nondimeno in realtà è incomunicabile, come si
è detto riguardo al nome sole.
3. I termini buono, sapiente e simili, son derivati, è
vero, da perfezioni
causate da Dio nelle creature; ma essi non sono usati per
significare l'essenza divina, bensì le perfezioni prese in se stesse e in
modo assoluto. E perciò anche secondo la realtà delle cose sono
comunicabili. Invece il termine Dio deriva da un'operazione esclusiva
di Dio, che noi continuamente sperimentiamo, ed è assunto a significare
la divina natura.
ARTICOLO
10
Se il nome Dio si dica con lo stesso significato univoco,
applicato a (colui che è) Dio per natura, (a chi lo è) per partecipazione
e (a chi lo è) nell'opinione (degli uomini)
SEMBRA che il nome Dio si dica con lo stesso significato univoco,
applicato a (colui che è) Dio per natura, (a chi lo è) per partecipazione
e (a chi lo è) nell'opinione (degli uomini). Infatti:
1. Dove ci sia diversità di senso, non si dà contraddizione tra chi
afferma e chi nega; poiché l'equivoco impedisce la contraddizione.
Ora, il cattolico che dice: "l'idolo non è Dio", contraddice il pagano
che afferma: "l'idolo è Dio". Dunque la parola Dio è presa nell'uno
e nell'altro caso univocamente.
2. L'idolo è Dio secondo l'opinione e non secondo la verità, allo
stesso modo che il godimento dei piaceri carnali si dice felicità secondo
l'opinione e non secondo verità. Ora, il termine felicità si dice
univocamente tanto della presunta felicità quanto di quella vera.
Dunque anche il nome Dio si dice univocamente del Dio vero e del dio creduto tale.
3. Univoci si dicono quei termini che hanno un medesimo senso.
Ora, il cattolico quando dice che vi è un solo Dio, col nome di Dio intende un
essere onnipotente, degno di venerazione sopra tutte le
cose: l'identica cosa intende il pagano quando afferma che l'idolo
è Dio. Dunque in tutti e due i casi questo nome è detto univocamente.
IN CONTRARIO: 1. Ciò che è nell'intelletto non è altro che l'immagine
di ciò che è nella realtà. Ora, il termine animale, attribuito al
vero animale e a quello dipinto, è detto con significato equivoco (nei
due casi). Perciò il nome Dio, asserito del Dio vero e del dio creduto
tale, è detto equivocamente.
2. Nessuno può esprimere ciò che ignora. Ora, il pagano non conosce
la natura divina. Dunque quando dice: "l'idolo è Dio", non
esprime la vera divinità. La esprime invece il cattolico che dice esservi
un solo Dio. Dunque il termine Dio non si dice univocamente,
ma equivocamente del Dio vero e del dio creduto tale.
RISPONDO: Il termine Dio nei tre casi indicati non è preso né in
senso univoco, né in senso equivoco, ma in senso analogico. Eccone
la chiara dimostrazione. Sono univoche quelle cose che hanno una
definizione del tutto identica; equivoche, quelle che ne hanno una
del tutto diversa; mentre le cose analogiche richiedono che il termine,
preso secondo un unico significato originale, compaia nella
definizione del termine stesso preso in altri significati. Così l'ente,
detto della sostanza, rientra nella definizione dell'ente, quando si
applica all'accidente; e sano detto dell'animale entra nella definizione
di sano detto dell'orina e della medicina: ed invero della
sanità dell'animale l'orina è un segno, e la medicina la causa.
Accade così nel caso nostro. Difatti si usa il
termine Dio, nel
medesimo significato che si adopera per il vero Dio, nel formare il
concetto di un dio (presunto o) secondo l'opinione o di un dio per
partecipazione. Quando infatti noi chiamiamo uno dio per partecipazione,
col nome Dio intendiamo indicare qualche cosa che ha una
somiglianza col vero Dio. Parimente, quando chiamiamo dio un
idolo, col termine Dio intendiamo di significare un qualche cosa che
da alcuni uomini viene ritenuta come Dio. E così è evidente che le
accezioni di questo nome sono diverse; ma una di esse si ritrova
nelle altre. È quindi chiaro che si dice in senso analogico.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La molteplicità dei nomi non si
argomenta dalla diversità degli oggetti a cui si attribuiscono, ma da
quella dei loro significati: p. es., il termine uomo, usato come
predicato di qualsiasi entità, secondo verità o falsamente, è sempre
usato con uno stesso significato. Avrebbe, invece, molteplici accezioni,
se col termine uomo volessimo esprimere entità diverse; come
se uno lo usasse per indicare quello che veramente l'uomo è; un
altro per significare una pietra, o qualsiasi altra cosa. È evidente,
quindi, che il cattolico, dicendo che l'idolo non è Dio, è in perfetto
contrasto col pagano, il quale ciò asserisce: perché l'uno e l'altro si
servono di questo termine per indicare il vero Dio. E infatti, quando
il pagano dice che l'idolo è Dio, non prende tale parola nel senso
di un presunto dio: ché altrimenti direbbe la verità, poiché gli stessi
cattolici talora prendono il nome di Dio in questo senso, come quando
si dice: "tutti gli dei dei pagani sono demoni".
2 e 3. Lo stesso deve dirsi per la seconda e terza difficoltà. Poiché le ragioni
addotte partono dalla diversità delle attribuzioni del nome (Dio), non
dalla diversità dei suoi significati.
4. Il termine animale, adoperato per l'animale vero e per quello
dipinto, non è preso in senso puramente equivoco; ma Aristotele
prende il termine equivoco un po' largamente, includendovi anche
l'analogo. Poiché talora si afferma che persino la parola ente, la
quale indubbiamente è termine analogico, è attribuita equivocamente
ai diversi predicamenti.
5. La natura stessa di Dio, come è in sé, non la conosce né il cattolico,
né il pagano; ma l'uno e l'altro la conoscono secondo una
certa ragione di causalità, o di eminenza, o di negazione, come si è
detto sopra. E sotto questo rispetto possono prendere il nome Dio
nello stesso significato e il pagano quando dice: "l'idolo è Dio", e il
cattolico quando ribatte: "l'idolo non è Dio". Se poi vi fosse qualcuno
che non conoscesse Dio in nessun modo, allora neppure potrebbe
nominarlo, o al massimo potrebbe nominarlo come quando
noi proferiamo delle parole delle quali ignoriamo il significato.
ARTICOLO
11
Se il nome
"Colui che è" sia il nome più proprio di Dio
SEMBRA che il nome
"Colui che è" non sia il nome più proprio di Dio.
Infatti:
1. Il termine Dio è un nome incomunicabile, come si è già detto.
Ora, il nome "Colui che è" non è un nome incomunicabile. Dunque non
è il nome più proprio di Dio.
2. Dionigi dice che
"la parola bene è manifestativa per eccellenza
di tutte le emanazioni di Dio". Ora, a Dio conviene necessariamente
d'essere il principio universale di tutte le cose. Dunque il nome proprio
per eccellenza di Dio è "il bene", e non "Colui che è".
3. Ogni nome divino deve importare relazione con le creature, poiché
Dio non è conosciuto da noi che per mezzo delle creature. Ora,
questo nome "Colui che è" non ha nessuna attinenza con le creature.
Dunque esso non è il nome più proprio di Dio.
IN CONTRARIO: È detto nella Sacra Scrittura che alla domanda di
Mosè: "Se mi chiederanno: Qual è il suo nome? che dirò loro?"
il Signore rispose: "Dirai loro così: "Colui che è" mi ha mandato
a voi". Dunque "Colui che è", è per eccellenza il nome proprio di Dio.
RISPONDO: L'espressione
"Colui che è" per tre motivi è il nome più
appropriato di Dio. Prima di tutto, per il suo significato. Ed infatti,
non esprime già una qualche forma (o modo particolare di essere),
ma lo stesso essere. Quindi, siccome l'essere di Dio è la sua
stessa essenza, e siccome ciò, come abbiamo dimostrato, non
conviene a nessun altro, è evidente che fra tutti gli altri nomi questo
compete a Dio in modo massimamente proprio: ogni cosa infatti si
denomina dalla propria forma (o essenza).
Secondo, per la sua universalità. Tutti gli altri nomi o sono meno
vasti ed universali o, se combinano con esso, vi aggiungono,
secondo la nostra maniera di concepire, qualche cosa, che in certo
modo lo qualifica e lo restringe. Ora, il nostro intelletto nella vita
presente non può conoscere l'essenza di Dio così come è in se stessa:
ma facendo qualsiasi restrizione intorno a quel che conosce di Dio,
si allontana dal modo nel quale Dio è in se stesso. E perciò quanto
meno i nomi sono ristretti e quanto più sono estesi e assoluti, tanto
più propriamente noi li applicheremo a Dio. Perciò dice anche il
Damasceno che "di tutti i nomi che si dicono di Dio quello che
meglio lo esprime è "Colui che è": poiché comprendendo tutto in se
stesso, possiede l'essere medesimo come una specie d'oceano di
sostanza infinito e senza rive". Con ogni altro nome si viene infatti
a determinare un qualche modo della sostanza della cosa: invece
questo nome "Colui che è" non determina nessun modo di essere, ma
conserva la sua indeterminatezza rispetto a tutti i modi di essere;
perciò esprime lo stesso "oceano infinito di sostanza".
Terzo, per la modalità inclusa nel suo significato. Indica infatti
l'essere al presente: e ciò si dice in modo proprissimo di Dio, il cui
essere, come afferma S. Agostino, non conosce passato o futuro.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1.
"Colui che è" è nome più appropriato
di Dio che l'altro nome Dio, sia per la derivazione del termine, che è
l'essere, sia per l'universalità del suo significato e per la voce del
verbo che viene usata, come abbiamo visto. Ma se si considera
l'oggetto stesso che si ha l'intenzione di esprimere, è più proprio il
nome Dio il quale è posto a indicare la natura divina. Nome poi
anche più proprio è il Tetragramma (Jahvè), il quale è destinato
a significare la stessa natura divina incomunicabile e, se così è lecito
esprimersi, singolare.
2. Il termine Bene è il nome principale di Dio, considerato però
come causa, non assolutamente; perché l'essere è logicamente anteriore
alla causalità.
3. Non è necessario che tutti i nomi divini implichino relazioni
alle creature; basta che si desumano da alcune perfezioni causate
da Dio nelle creature: tra queste la principale è l'essere da cui
deriva il nome "Colui che è".
ARTICOLO
12
Se rispetto a Dio si possano formare delle
proposizioni affermative
SEMBRA che rispetto a Dio non si possano formare delle proposizioni
affermative. Infatti:
1. Dionigi dice che
"relativamente a Dio le negazioni sono vere,
le affermazioni sono inadeguate".
2. Boezio scrive:
"nessuna forma semplice può essere soggetto".
Ora, Dio è forma semplice al massimo grado, come si è già dimostrato.
Dunque non può essere soggetto. Ma siccome tutto ciò di cui
si forma una proposizione affermativa si prende come soggetto, ne
segue che di Dio non si possano formare proposizioni affermative.
3. L'intelletto che concepisce le cose diversamente da come sono
è falso. Ora, Dio ha l'essere immune da ogni composizione, come fu
già provato. Poiché dunque la mente, quando afferma, concepisce
l'oggetto facendo una composizione, sembra che proposizioni affermative
vere intorno a Dio non si possano formulare.
IN CONTRARIO: La fede non contiene niente di falso. Ora nella fede
vi sono alcune proposizioni affermative, p. es., che Dio è uno e
trino, e che è onnipotente. Dunque su Dio si possono formulare
delle proposizioni affermative vere.
RISPONDO: Si possono con verità formulare intorno a Dio proposizioni
affermative. Per dimostrarlo si consideri che in ogni proposizione
affermativa vera il soggetto ed il predicato devono significare
realmente, sotto un certo aspetto, l'identica cosa e concettualmente
cose diverse. Ciò è evidente tanto nelle proposizioni nelle quali il
predicato è una qualità accidentale, quanto in quelle nelle quali il
predicato è sostanziale. (Nella proposizione, p. es.: l'uomo è bianco)
evidentemente uomo e bianco sono una sola e identica realtà in concreto,
ma concettualmente differiscono, perché altra è l'idea di
uomo e altra quella di bianco. Parimente quando dico l'uomo è
un animale; poiché quella realtà medesima che è uomo, è in verità
animale; e infatti, nello stesso soggetto (concreto) c'è e la natura
sensibile, per la quale si chiama animale, e quella ragionevole, per
la quale è detto uomo. Quindi anche qui abbiamo che predicato e soggetto
sono in concreto l'identica cosa, ma differiscono nozionalmente.
Ma ciò, in qualche modo, si ritrova persino nelle proposizioni
nelle quali un'identica cosa si afferma di se medesima; perché
l'intelletto a ciò che prende come soggetto fa fare la parte del
supposito, e a ciò che prende come predicato fa fare la parte della
forma esistente nel supposito, verificandosi in tal modo quanto si
dice (in logica) che "i predicati si presentano sotto l'aspetto di forma,
ed i soggetti sotto quello di materia". A questa diversità concettuale
corrisponde la pluralità del predicato e del soggetto: mentre l'identità
reale è espressa dall'intelligenza per mezzo del loro stesso congiungimento.
Ora, Dio, considerato in se medesimo, è assolntamente uno e semplice;
ma tuttavia il nostro intelletto lo conosce attraverso diversi
concetti, non potendolo vedere come è in se stesso. Ma, sebbene lo
conosca sotto diversi concetti, sa tuttavia che a tutti i suoi concetti
corrisponde semplicemente una sola e identica sostanza. Ebbene,
questa pluralità di concetti la nostra mente la rappresenta mediante
la pluralità del predicato e del soggetto; ne rappresenta invece l'unità
per mezzo del loro congiungimento.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dionigi dice che le proposizioni affermative
intorno a Dio sono inadeguate, o, come porta un'altra
versione sconvenienti, in quanto che nessun nome compete a Dio
secondo il modo di significare, come è stato detto sopra.
2. La mente nostra non può apprendere le forme semplici sussistenti
come sono in se stesse, ma le apprende alla maniera dei composti,
nei quali v'è qualcosa che fa da sustrato e qualche cosa che
vi si appoggia sopra. Perciò apprende la forma semplice sotto
l'aspetto di soggetto e le attribuisce qualche cosa.
3. La proposizione
"l'intelletto che intende una cosa diversamente
da come è, è falso", ha un doppio senso; perché l'avverbio diversamente
può determinare il verbo intende rispetto all'oggetto inteso,
ovvero relativamente allo stesso intelletto che percepisce. Nel
primo caso, la proposizione è vera, e questo ne è il senso: quell'intelletto
che intende una cosa altrimenti da quello che la cosa è, è falso.
Ma questo non si verifica nel caso nostro: perché la nostra
mente formulando su Dio proposizioni affermative non dice che egli
è composto, ma che è semplice. Ma se (il diversamente) si riferisce
all'intelletto che intende, allora la proposizione è falsa. Difatti il
modo dell'intelletto nell'apprendere è diverso dal modo di essere
della cosa. È evidente, infatti, che il nostro intelletto concepisce
immaterialmente le cose materiali che sono al di sotto di esso, non perché
le consideri immateriali, ma perché nell'intendere ha un modo
che è immateriale. Parimente, quando (la nostra intelligenza) concepisce
cose semplici che sono al di sopra di essa, le intende alla sua
maniera, cioè sotto forma di cose composte; non già che le consideri
composte. E così il nostro intelletto non è falso quando forma nei
riguardi di Dio complesse formulazioni concettuali.
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