Il Santo Rosario

La Fede

Somma Teologica II-II, q. 2

L'atto interno della fede

Veniamo ora a trattare dell'atto della fede. Prima di quello interno, e poi di quello esterno.
Sul primo argomento si pongono dieci quesiti: 1. Che cosa significa credere, che è l'atto interno della fede; 2. In quanti modi si dica; 3. Se sia necessario alla salvezza credere qualche cosa che supera la ragione naturale; 4. Se sia necessario credere cose che la ragione naturale può raggiungere; 5. Se sia indispensabile per la salvezza credere alcune cose in maniera esplicita; 6. Se tutti siano ugualmente tenuti a credere in maniera esplicita; 7. Se sia stato sempre necessario per la salvezza avere la fede esplicita in Cristo; 8. Se sia indispensabile credere esplicitamente nella Trinità; 9. Se l'atto della fede sia meritorio; 10. Se le ragioni umane diminuiscano il merito della fede.

ARTICOLO 1

Se credere sia "cogitare approvando"

SEMBRA che credere non sia "cogitare approvando". Infatti:
1. Cogitazione implica l'idea di discussione: poiché cogitare si dice che derivi da "coagitare". Ora, il Damasceno afferma, che "la fede è un consenso indiscusso". Dunque cogitare è incompatibile con l'atto di fede.
2. La fede risiede nella ragione, come vedremo. Ma cogitare è atto della cogitativa, la quale come abbiamo visto nella Prima Parte, è una facoltà di ordine sensitivo. Dunque la cogitazione non appartiene alla fede.
3. Credere è un atto dell'intelletto: il quale ha per oggetto la verità. L'approvazione invece, o assenso, non è un atto dell'intelletto, ma della volontà, come il consenso, secondo le spiegazioni date in precedenza. Perciò credere non è un cogitare con approvazione.

IN CONTRARIO: S. Agostino così ha definito l'atto di credere.

RISPONDO: Cogitare si può prendere in tre diversi significati. Primo, nel senso generico di una qualsiasi considerazione attuale dell'intelletto; come in quel testo di S. Agostino: "Chiamo qui intelligenza quella mediante la quale possiamo conoscere cogitando". Secondo, in un senso appropriato il cogitare indica una considerazione dell'intelletto accompagnata da una ricerca, o discussione, prima di giungere alla perfetta intellezione mediante la certezza dell'evidenza. E in questo senso S. Agostino afferma, che "il Figlio di Dio non è chiamato cogitazione, ma Parola di Dio. Poiché la nostra cogitazione stessa, raggiunto che abbia l'oggetto della conoscenza, informata da esso, costituisce la nostra vera parola. Ecco perché la Parola, o Verbo, di Dio si deve intendere senza cogitazione, non avendo niente di formabile che possa essere informe". E in questo senso la cogitazione propriamente è un moto nell'atto di deliberare, non ancora illuminato dalla piena visione della verità. Siccome però codesto moto dell'animo può essere relativo sia ai concetti universali, che appartengono alla facoltà intellettiva, sia ai dati particolari che riguardano le facoltà di ordine sensitivo, cogitare indica in un secondo senso l'atto deliberativo dell'intelletto; mentre in un terzo senso sta a indicare l'atto della cogitativa.
Perciò, se si prende il termine cogitare in senso generico, cioè nel primo significato, l'espressione "cogitare approvando" non dice tutto ciò che implica il credere. Infatti in tal senso anche chi considera le cose di cui ha la scienza, o la nozione, cogita approvando. Se invece si prende nel secondo senso, allora nel cogitare è implicita tutta la nozione dell'atto di credere. Infatti tra gli atti intellettivi alcuni hanno una ferma approvazione senza codesta cogitazione, come quando uno considera quello che ha imparato o che intuisce: poiché codesta considerazione è già pienamente formata. Altri invece presentano una cogitazione informe, senza una approvazione ferma: o perché non inclinano verso nessuna delle due parti (in discussione), come avviene nei dubbiosi; o perché inclinano più verso una parte, ma poggiandosi su indizi malsicuri, come fanno i sospettosi: oppure perché decidono per una parte, ma col timore che sia vero il contrario, come avviene a chi sceglie un'opinione. Invece l'atto del credere ha un'adesione ferma a una data cosa, e in questo chi crede è nelle condizioni di chi conosce per scienza, o per intuizione: tuttavia la sua conoscenza non è compiuta mediante una percezione evidente; e da questo lato chi crede è nelle condizioni di chi dubita, di chi sospetta e di chi sceglie un'opinione. E sotto questo aspetto è proprio del credente il cogitare approvando: ed è così che l'atto del credere si distingue da tutti gli atti intellettivi che hanno per oggetto il vero e il falso.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La fede è incompatibile con la discussione della ragione naturale che pretende dimostrare quanto si crede. Tuttavia ammette una discussione di ciò che può indurre l'uomo a credere: cioè, p. es., che si tratta di cose rivelate da Dio, e confermate dai miracoli.
2. Cogitare qui non si prende come atto della cogitativa, ma come atto dell'intelletto, secondo le spiegazioni date.
3. L'intelletto di chi crede viene determinato a una data cosa non dalla ragione, ma dalla volontà. Ecco quindi che l'assenso, o approvazione, si prende qui come atto dell'intelletto in quanto determinato dalla volontà.

ARTICOLO 2

Se sia giusto distinguere nell'atto di fede il "credere a Dio" dal "credere Dio" e "credere in Dio"

SEMBRA che non sia giusto distinguere nell'atto di fede il "credere a Dio" dal "credere Dio" e "credere in Dio". Infatti:
1. Unico è l'atto di un abito unico. Ora, la fede è un abito unico, essendo essa un'unica virtù. Dunque non è giusto distinguere in essa più atti.
2. Ciò che è comune a ogni atto di fede non si deve considerare come un particolare atto di fede. Ma credere a Dio è un atto che si riscontra in qualsiasi atto di fede: perché la fede si appoggia alla prima verità. Perciò non è giusto distinguerlo da certi altri atti di fede.
3. Non si può considerare come un atto di fede ciò che conviene agli infedeli. Ora, anche gli infedeli credono Dio come esistente. Quindi questo fatto non si deve considerare come un atto di fede.
4. Portarsi verso il fine spetta alla volontà, che ha per oggetto il bene e il fine. Ora, credere non è un atto della volontà, ma dell'intelletto. Dunque non si deve ammettere nella fede una differenza che consista nel credere "in Dio", atto che implica un moto verso il fine.

IN CONTRARIO: S. Agostino ammette questa distinzione.

RISPONDO: L'atto di qualsiasi abito come di qualsiasi potenza va considerato in base al rapporto dell'abito o della potenza col proprio oggetto. Ora, tre sono gli aspetti in cui possiamo considerare l'oggetto della fede. Infatti esso si può considerare sia in rapporto all'intelletto, sia in rapporto alla volontà, poiché credere, come abbiamo detto sopra, spetta all'intelletto sotto la mozione della volontà che lo spinge ad assentire. Se si considera in rapporto all'intelletto, allora nell'oggetto della fede possiamo distinguere due cose, secondo le spiegazioni date. La prima è l'oggetto materiale della fede. E da questo lato si considera come atto di fede "credere Dio": poiché, come sopra abbiamo detto, niente viene proposto alla nostra fede, se non in quanto appartiene a Dio. - La seconda è la ragione formale dell'oggetto, la quale costituisce come il motivo per cui si acconsente a una data verità di fede. E da questo lato si considera come atto di fede "credere a Dio": poiché, come sopra abbiamo detto, oggetto formale della fede è la prima verità, alla quale l'uomo deve aderire, per accettare in forza di essa le cose da credere. - Se invece si considera l'oggetto di fede sotto un terzo aspetto, cioè in quanto dipende dall'intelletto dietro la mozione della volontà, allora si ha come atto di fede il "credere in Dio": ché la verità prima considerata qual fine si riferisce alla volontà.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Con queste tre cose non vengono indicati tre diversi atti di fede: ma un identico atto nei suoi diversi rapporti con l'oggetto della fede.
2. È evidente così la risposta alla seconda difficoltà.
3. Credere Dio non spetta agli infedeli in quanto è un atto di fede. Essi infatti non credono che Dio esista nelle condizioni determinate dalla fede. E quindi in verità non credono Dio: poiché, come dice il Filosofo, nelle cose semplici se c'è un difetto di conoscenza non si conoscono affatto.
4. La volontà muove l'intelletto e le altre potenze dell'anima verso il fine. E in tal senso si enumera tra gli atti di fede "credere in Dio".

ARTICOLO 3

Se sia necessario alla salvezza credere qualche cosa che sorpassa la ragione naturale

SEMBRA che per salvarsi non sia necessario credere. Infatti:
1. Alla perfezione e alla salvezza di qualsiasi essere sembra che possa bastare quanto ad esso si addice secondo la sua natura. Ora, le cose di fede sorpassano la ragione naturale dell'uomo; poiché queste, come abbiamo visto, sono inevidenti. Dunque credere non è necessario alla salvezza.
2. Per un un uomo è pericoloso approvare cose di cui non può giudicare se sono vere o false. Difatti nella Scrittura si legge: "L'orecchio non deve forse giudicare le parole?". Ora, l'uomo non può giudicare le cose di fede: poiché non può risolverle alla luce dei primi principi, di cui ci serviamo per giudicare di tutto. Perciò è pericoloso prestare fede a tali cose. E quindi non è necessario credere per salvarsi.
3. La salvezza dell'uomo è in Dio, secondo le parole dei Salmi: "La salvezza dei giusti viene dal Signore". Però, come scrive S. Paolo, "le perfezioni invisibili di Dio, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili; quali l'eterna sua potenza e la sua divinità". Ora, le cose che si comprendono non sono credute. Dunque non è indispensabile alla salvezza che l'uomo creda qualche cosa.

IN CONTRARIO: Sta scritto: "Senza la fede non è possibile piacere a Dio".

RISPONDO: In tutti gli esseri ordinati si riscontra che alla perfezione di una natura inferiore concorrono due cose: la prima conforme al moto suo proprio, la seconda conforme al moto di un essere superiore. L'acqua, p. es., secondo il moto suo proprio tende verso il centro (di gravità); invece secondo il moto della luna tende a scostarsi dal centro secondo il flusso e riflusso. Parimente, le sfere dei pianeti in forza del moto loro proprio si muovono da occidente a oriente; mentre in forza del moto della prima sfera si muovono dall'oriente all'occidente. Ora, le sole creature ragionevoli hanno un ordine immediato con Dio. Poiché le altre creature non raggiungono qualche cosa di universale, ma solo cose particolari; perché partecipano la bontà di Dio, o soltanto nell'essere, come le creature inanimate, oppure nel vivere e nel conoscere, ma limitato ai singolari soltanto, come le piante e gli animali. Invece la creatura ragionevole, conoscendo la ragione universale di ente e di bene, ha un ordine immediato al principio universale dell'essere. Ecco perché la perfezione della creatura ragionevole non consiste soltanto in ciò che le compete secondo la sua natura, ma anche in ciò che le viene concesso da una partecipazione soprannaturale della bontà divina. Per questo sopra abbiamo detto che l'ultima beatitudine dell'uomo consiste in una visione soprannaturale di Dio. Visione alla quale l'uomo non può arrivare, se non come discepolo sotto il magistero di Dio, secondo le parole evangeliche: "Chiunque ha udito il Padre ed ha appreso viene a me". Ora, l'uomo non diviene partecipe di codesto insegnamento in un istante, bensì progressivamente, secondo la sua stessa natura. Ma qualsiasi scolaro in tali condizioni è tenuto a credere per giungere alla conoscenza perfetta. Anche il Filosofo, del resto, insegna, che "chi vuole apprendere deve credere". Perciò affinché l'uomo raggiunga la visione perfetta della beatitudine, si richiede che prima creda a Dio, come fa un discepolo col suo maestro.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'essere umano dipende da una natura superiore; perciò alla sua perfezione non basta la conoscenza naturale, ma si richiede una conoscenza soprannaturale, secondo le spiegazioni date.
2. Come l'uomo aderisce ai primi principi per la luce naturale dell'intelletto, così l'uomo virtuoso formula, mediante l'abito della virtù, un retto giudizio sulle cose che ad essa si riferiscono. Ed è così che l'uomo aderisce alle verità di fede, e non agli errori contrari, mediante la luce della fede infusagli da Dio. Perciò, come dice S. Paolo, "non c'è nessun" pericolo, o "condanna per quelli che sono in Cristo Gesù", essendo da lui illuminati con la fede.
3. La fede percepisce le perfezioni invisibili di Dio in modo più alto, e da un maggior numero di punti di vista, di quanto non possa fare la ragione naturale partendo dalle creature. Perciò nella Scrittura si legge: "Più cose ti furono mostrate, superiori all'intelligenza umana".

ARTICOLO 4

Se sia necessario credere anche verità che si possono dimostrare con la ragione naturale

SEMBRA che non sia necessario credere le verità che si possono dimostrare con la ragione naturale. Infatti:
1. Niente di superfluo si trova nelle opere di Dio, meno ancora che nelle opere della natura. Ora, quando un effetto si può ottenere con un dato mezzo, è superfluo aggiungerne un altro. Dunque sarebbe superfluo ricevere per fede le verità che si possono conoscere con la ragione naturale.
2. È necessario credere le cose di fede. Ma sopra abbiamo visto che una stessa cosa non può essere oggetto di scienza e di fede. Perciò, siccome la scienza si estende a tutte le cose conoscibili con la ragione naturale, sembra che non sia necessario credere cose che sono dimostrabili con la ragione naturale.
3. Tutte le cose che sono oggetto di scienza sono della stessa natura. Quindi, se alcune di esse vengono presentate come di fede, per lo stesso motivo si dovranno credere tutte le scienze umane, il che è falso. Dunque non è necessario accettare per fede quanto è conoscibile con la ragione naturale.

IN CONTRARIO: È indispensabile credere che Dio è unico ed immateriale, eppure queste sono verità che i filosofi dimostrano con la ragione naturale.

RISPONDO: Era necessario che l'uomo accettasse per fede non soltanto le verità divine che superano la ragione, ma anche quelle che sono conoscibili con la ragione naturale. E questo per tre motivi. Primo perché l'uomo possa raggiungere più presto la conoscenza delle verità divine. Infatti la scienza che ha il compito di dimostrare che Dio esiste e altre tesi riguardanti Dio, è l'ultima in ordine didattico, presupponendone molte altre. E quindi l'uomo non raggiungerebbe la conoscenza di Dio che dopo molti anni di vita. - Secondo, perché la conoscenza di Dio sia più estesa. Infatti molti non possono progredire nello studio, o per la scarsità dell'ingegno, o per le altre occupazioni e necessità della vita temporale, oppure per la svogliatezza nell'apprendere. Costoro verrebbero del tutto privati della conoscenza di Dio, se le verità divine non venissero loro proposte per fede. - Terzo, a motivo della certezza. Infatti la ragione umana è molto manchevole nelle cose divine: ne abbiamo un indizio nel fatto che i filosofi, pur avendo indagato a fondo le cose umane con l'investigazione naturale, hanno sbagliato qui in molte cose e non si sono trovati d'accordo tra di loro. Perciò affinché la conoscenza di Dio fosse indubitata e certa presso gli uomini, era necessario che le cose divine venissero proposte per fede, date cioè come rivelazione di Dio, che non può ingannare.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'investigazione naturale non basta ad assicurare al genere umano la conoscenza delle verità divine, neppure in quello che la ragione è in grado di dimostrare. Perciò non è superfluo che queste siano proposte come cose di fede.
2. Un'identica verità non può essere oggetto di fede e di scienza nel medesimo individuo. Però, come sopra abbiamo detto, ciò che per uno è oggetto di scienza, per un altro può essere cosa di fede.
3. Le verità scientifiche concordano tutte nell'essere oggetto di scienza, ma non tutte concordano nell'ordinare ugualmente alla beatitudine. Perciò non tutte sono ugualmente proponibili come cose di fede.

ARTICOLO 5

Se l'uomo sia tenuto a credere qualche cosa in maniera esplicita

SEMBRA che l'uomo non sia tenuto a credere qualche cosa in maniera esplicita. Infatti:
1. Nessuno è tenuto a ciò che non è in suo potere. Ora, non è in potere dell'uomo credere qualche cosa in maniera esplicita. Dice infatti S. Paolo: "Come crederanno in uno di cui non han sentito dire nulla? E come ne sentiranno parlare senza chi lo annunzi? E come lo annunzieranno se non sono stati mandati?". Dunque l'uomo non è tenuto a credere nulla in maniera esplicita.
2. La fede ci ordina a Dio come la carità. Ma l'uomo non è tenuto a osservare (materialmente) i precetti della carità: basta la sola disposizione d'animo. Ciò è evidente, come spiega S. Agostino, per quel precetto del Signore: "Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche la sinistra". Perciò l'uomo non è tenuto neppure a credere esplicitamente qualche cosa, ma basta che abbia l'animo disposto a credere quanto Dio propone.
3. La bontà della fede si risolve in qualche modo nell'obbedienza, secondo le parole di S. Paolo: "indurre all'obbedienza della fede tutti i gentili". Ora, per avere la virtù dell'obbedienza non si richiede che uno osservi determinati precetti, ma basta che abbia l'animo disposto a ubbidire, come dice il Salmista: "Son pronto, e non son turbato, ad osservare i tuoi precetti". Quindi sembra che anche per la fede basti che uno abbia l'animo disposto a credere le cose che Dio potrebbe proporre, però senza credere nulla in maniera esplicita.

IN CONTRARIO: Sta scritto: "Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste e che è rimuneratore di quelli che lo cercano".

RISPONDO: I precetti della legge, che l'uomo è tenuto a osservare, hanno per oggetto gli atti di virtù che dispongono a raggiungere la salvezza. Ma gli atti di virtù, come sopra abbiamo detto, si devono giudicare in base al rapporto di ciascun abito col suo oggetto. Ora, nell'oggetto di qualsiasi virtù si possono considerare due cose, vale a dire: ciò che costituisce l'oggetto proprio ed essenziale della virtù, e che è indispensabile in ogni atto di virtù; e inoltre ciò che è connesso solo accidentalmente e secondariamente con la ragione specifica dell'oggetto. All'oggetto della fortezza, p. es., appartiene propriamente ed essenzialmente affrontare i pericoli di morte, e opporsi con pericolo ai nemici, per il bene comune: ma armarsi, colpire con la spada in una guerra giusta, oppure compiere altre cose del genere si riduce all'oggetto della fortezza, però indirettamente. Perciò l'obbligatorietà del precetto abbraccia l'oggetto proprio ed essenziale della virtù, come l'atto medesimo di essa. Invece la determinazione dell'atto virtuoso relativo agli oggetti accidentali e secondari non cade sotto l'obbligatorietà del precetto, se non in luoghi e tempi determinati. Perciò si deve concludere che l'oggetto essenziale della fede è quello che rende l'uomo beato, come abbiamo detto sopra. Sono invece secondari e accidentali in rapporto ad esso tutte le verità che Dio ha insegnato, e che sono certamente nella Scrittura: che Abramo, p. es., ebbe due figli, che David è figlio di Isai, e altre cose del genere. Rispetto quindi, ai dogmi fondamentali, che sono gli articoli di fede, l'uomo è tenuto a crederli esplicitamente, come è tenuto ad avere la fede. Invece le altre verità di fede l'uomo non è tenuto a crederle in maniera esplicita, ma solo implicitamente: è tenuto, cioè, ad avere l'animo disposto a credere quanto si contiene nella Scrittura. Però allora soltanto è tenuto a crederle in maniera esplicita, quando gli consta che esse fanno parte dell'insegnamento della fede.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Se si considerasse in potere dell'uomo solo quello che egli può, a prescindere dall'aiuto della grazia, allora l'uomo sarebbe tenuto a molte cose che non sono in suo potere: quali, p. es., amare Dio e il prossimo; e credere gli articoli della fede. L'uomo però ha queste capacità con l'aiuto della grazia. E codesto aiuto a chiunque sia concesso da Dio, è concesso per misericordia e a chi non viene concesso, è negato per giustizia, in pena cioè di un peccato precedente, almeno del peccato originale; come spiega S. Agostino.
2. L'uomo è tenuto ad amare determinatamente quelli che sono gli oggetti propri ed essenziali della carità, cioè Dio e il prossimo. Invece l'obiezione parte da quei precetti della carità, che appartengono all'oggetto della carità quasi indirettamente.
3. La virtù dell'obbedienza si esaurisce propriamente nella volontà. Perciò per l'atto di obbedienza basta la prontezza della volontà nella sottomissione a chi comanda; sottomissione che è l'oggetto proprio ed essenziale dell'obbedienza. Invece questo o quel determinato precetto si ricollegano solo accidentalmente e indirettamente all'oggetto proprio di essa.

ARTICOLO 6

Se tutti siano tenuti ugualmente ad avere una fede esplicita

SEMBRA che tutti siano tenuti ugualmente ad avere una fede esplicita. Infatti:
1. Tutti sono tenuti alle cose indispensabili per la salvezza: ciò è evidente, p. es., per i precetti della carità. Ma l'esplicitazione delle cose di fede è indispensabile alla salvezza, come abbiamo dimostrato nell'articolo precedente. Dunque tutti sono tenuti ugualmente a credere in maniera esplicita.
2. Uno non deve essere esaminato mai su ciò che non è tenuto a credere in maniera esplicita. Invece talora le persone semplici sono esaminate sui più minuti articoli di fede. Quindi tutti sono tenuti a credere esplicitamente ogni cosa.
3. Se la gente del popolo non è tenuta ad avere una fede esplicita, ma implicita soltanto, è obbligata ad avere una fede implicita sulla fede dei maggiorenti. Ma questo è pericoloso: perché può capitare che i maggiorenti cadano nell'errore. Dunque anche la gente semplice deve avere una fede esplicita. E quindi tutti son tenuti ugualmente a credere in maniera esplicita.

IN CONTRARIO: In Giobbe si legge, che "i buoi aravano e le asine pascolavano vicino ad essi". E ciò significa, secondo la spiegazione di S. Gregorio, che la gente più umile, raffigurata negli asini, nel credere deve aderire ai maggiorenti, raffigurati nei buoi.

RISPONDO: Per rendere esplicite le cose di fede ci vuole la rivelazione di Dio: poiché le cose di fede trascendono la ragione naturale. Ma la rivelazione divina giunge agli inferiori attraverso i superiori, secondo un certo ordine: giunge agli uomini mediante gli angeli, e agli angeli inferiori mediante gli angeli superiori, come insegna Dionigi. Per lo stesso motivo è necessario che anche tra gli uomini l'esplicitazione della fede negli inferiori dipenda dai superiori. Perciò, come gli angeli superiori che illuminano hanno, secondo le spiegazioni di Dionigi, una conoscenza delle cose divine più vasta di quella degli angeli inferiori; così gli uomini più dotati, che hanno il compito di istruire gli altri, sono tenuti ad avere una conoscenza più vasta delle cose di fede e a credere in maniera più esplicita.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La fede esplicita nelle cose di Dio non è ugualmente necessaria per tutti: perché i maggiorenti, che hanno il compito di insegnare, sono tenuti a credere più cose che gli altri.
2. Le persone semplici non devono essere esaminate sui più minuti articoli di fede, se non quando c'è il sospetto che si siano lasciate ingannare dagli eretici, i quali sono soliti depravare la fede della povera gente nelle più sottili cose di fede. Però non si deve loro imputare a colpa, se sono cadute in errore per ignoranza, quando si riscontra che non aderiscono pertinacemente a una dottrina perversa.
3. Le persone semplici non hanno una fede implicita nella fede dei maggiorenti, se non in quanto questi ultimi aderiscono all'insegnamento divino; ecco perché l'Apostolo scriveva: "Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo". Infatti non è regola di fede la conoscenza umana, ma la verità divina. E se alcuni dei maggiorenti se ne allontanano, non ne è pregiudicata la fede dei semplici, i quali ritengono che essi abbiano una fede retta; a meno che non vogliano aderire agli errori di costoro, contro la fede della Chiesa universale, che non pùò mai venire meno, secondo la promessa del Signore: "Io ho pregato per te, o Pietro, affinché la tua fede non venga meno".

ARTICOLO 7

Se per tutti sia necessario alla salvezza credere esplicitamente il mistero di Cristo

SEMBRA che credere esplicitamente il mistero di Cristo non sia per tutti necessario alla salvezza. Infatti:
1. Un uomo non è tenuto a credere quello che ignorano persino gli angeli: poiché l'esplicitazione della fede dipende dalla rivelazione di Dio, la quale giunge agli uomini mediante gli angeli, come abbiamo detto. Ora, anche gli angeli hanno ignorato il mistero dell'incarnazione: infatti, stando all'interpretazione di Dionigi, nei Salmi essi si domandavano: "Chi è questo re della gloria?", e in Isaia: "Chi è questi che viene da Edom?". Perciò gli uomini non erano tenuti a credere esplicitamente il mistero dell'incarnazione.
2. È noto che S. Giovanni Battista era tra le persone più dotate, e vicinissimo a Cristo; e di lui il Signore disse, che "tra i nati di donna non è sorto mai alcuno più grande di lui". Eppure sembra che Giovanni Battista non abbia conosciuto esplicitamente il mistero di Cristo, avendo egli chiesto al Signore: "Sei tu colui che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro?". Dunque anche le persone più dotate non erano tenute ad avere la fede esplicita nel Cristo.
3. Dionigi afferma che molti pagani raggiunsero la salvezza mediante il ministero degli angeli. Ora, i pagani non ebbero nessuna fede nel Cristo, né esplicita né implicita: perché essi non ebbero nessuna rivelazione. Perciò credere esplicitamente il mistero di Cristo non è per tutti necessario alla salvezza.

IN CONTRARIO: S. Agostino ha scritto: "Sana è quella fede per cui crediamo che nessun uomo di qualsiasi età possa essere liberato dal contagio della morte e dai legami del peccato, se non mediante Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini".

RISPONDO: Come sopra abbiamo spiegato, il mezzo indispensabile all'uomo per raggiungere la beatitudine appartiene propriamente ed essenzialmente all'oggetto della fede. Ora, la via per cui gli uomini possono raggiungere la beatitudine è il mistero dell'incarnazione e della passione di Cristo; poiché sta scritto: "Non c'è alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspettarci di essere salvati". Perciò era necessario che il mistero dell'incarnazione di Cristo in qualche modo fosse creduto da tutti in tutti i tempi: però diversamente secondo le diversità dei tempi e delle persone.
Infatti prima del peccato l'uomo ebbe la fede esplicita dell'incarnazione di Cristo in quanto questa era ordinata alla pienezza della gloria; ma non in quanto era ordinata a liberare dal peccato con la passione e con la resurrezione; perché l'uomo non prevedeva il suo peccato. Invece si arguisce che prevedeva l'incarnazione di Cristo dalle parole che disse: "Perciò l'uomo lascerà il padre e la madre e si stringerà alla sua moglie"; parole che secondo l'Apostolo stanno a indicare "il grande mistero esistente in Cristo e nella Chiesa"; mistero che non è credibile che il primo uomo abbia ignorato.
Dopo il peccato, poi, il mistero di Cristo fu creduto esplicitamente non solo per l'incarnazione, ma anche rispetto alla passione e alla resurrezione, con le quali l'umanità viene liberata dal peccato e dalla morte. Altrimenti (gli antichi) non avrebbero prefigurato la passione di Cristo con dei sacrifici, sia prima che dopo la promulgazione della legge. E di questi sacrifici i maggiorenti conoscevano esplicitamente il significato; mentre le persone semplici ne avevano una conoscenza confusa sotto il velo di quei sacrifici, credendo che essi erano disposti per il Cristo venturo. Inoltre, come sopra abbiamo detto (gli antichi) conobbero le cose che si riferivano al mistero di Cristo tanto più distintamente, quanto più furono vicini al Cristo.
Finalmente dopo la rivelazione della grazia tanto i maggiorenti che i semplici sono tenuti ad avere la fede esplicita dei misteri di Cristo; e specialmente di quelli che sono oggetto delle solennità della Chiesa, e che vengono pubblicamente proposti, come gli articoli sull'incarnazione, di cui abbiamo già parlato. Invece le altre sottili considerazioni su codesti articoli sono tenuti a crederle alcuni soltanto, in maniera più o meno esplicita secondo lo stato e le funzioni di ciascuno.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come insegna S. Agostino, "agli angeli non rimase del tutto nascosto il mistero del regno di Dio". Però ne conobbero più perfettamente certi aspetti solo mediante la rivelazione di Cristo.
2. S. Giovanni Battista non intese interrogare sulla prima venuta di Cristo per l'opera dell'incarnazione: poiché egli stesso l'aveva proclamata espressamente, dicendo: "Io ho veduto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio". Egli perciò non domandò: "Sei tu colui che è venuto?", ma: "Sei tu colui che deve venire?", chiedendo così non per il passato, ma per il futuro. - Così pure non si deve credere che egli ignorasse la passione cui il Cristo andava incontro; infatti lui stesso aveva detto: "Ecco l'Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo", preannunziandone l'immolazione; inoltre ciò era stato preannunziato dagli altri profeti, e specialmente da Isaia. - Perciò si può ritenere, con S. Gregorio, che Giovanni domandasse perché non sapeva se il Cristo sarebbe disceso personalmente all'inferno. Sapeva bene, infatti, che la virtù della passione di lui si sarebbe estesa fino a coloro che erano chiusi nel limbo; secondo le parole di Zaccaria: "Tu inoltre, mediante il sangue della tua alleanza hai riscattato i tuoi prigionieri dalla fossa senza acqua". Ma non era tenuto a credere in modo esplicito, prima che ciò si compisse, che il Cristo vi sarebbe disceso personalmente.
Oppure possiamo ritenere con S. Ambrogio, che la domanda non fu dettata dal dubbio, o dall'ignoranza, ma piuttosto dall'affetto. - Oppure si può pensare, come fa il Crisostomo, che Giovanni abbia domandato non perché egli ignorasse, ma perché Cristo da sé convincesse i suoi discepoli. Infatti Cristo rispose istruendo i discepoli, col mostrare il valore delle opere compiute.
3. A molti pagani furono fatte rivelazioni sul Cristo, come è evidente dalle loro predizioni. Giobbe infatti affermava: "Io so che il mio redentore vive". E anche la Sibilla, come riferisce S. Agostino, predisse alcune cose sul Cristo. Inoltre nella storia romana si racconta che al tempo dell'Imperatore Costantino e di Irene sua madre fu esumato un uomo con una lamina d'oro sul petto in cui era scritto: "Cristo nascerà da una Vergine, e credo in lui. O sole, ai tempi di Irene e di Costantino mi rivedrai".
Tuttavia anche se alcuni si salvarono senza codeste rivelazioni, non si salvarono senza la fede nel Mediatore. Perché, anche se non ne ebbero una fede esplicita, ebbero però una fede implicita nella divina provvidenza, credendo che Dio sarebbe stato il redentore degli uomini nel modo che a lui sarebbe piaciuto, e secondo la rivelazione da lui fatta a quei pochi sapienti che erano nella verità; essendo egli, come dice il libro di Giobbe: "Colui che insegna a noi più che alle bestie della terra".

ARTICOLO 8

Se sia necessario alla salvezza credere esplicitamente nella Trinità

SEMBRA che credere esplicitamente nella Trinità non sia necessario alla salvezza. Infatti:
1. L'Apostolo ha scritto: "Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste, e che è rimuneratore di quelli che lo cercano". Ora, questo si può credere, senza la fede nella Trinità. Dunque non è necessario avere la fede esplicita nella Trinità.
2. Il Signore ha detto: "Padre, io ho manifestato il tuo nome agli uomini"; e S. Agostino spiega: "Non il tuo nome di Dio, ma il tuo nome col quale sei chiamato Padre mio". E aggiunge poco dopo: "Dio in quanto creatore di questo mondo, è un Dio noto presso tutte le genti; in quanto non va adorato con i falsi dei, è un Dio noto in Giudea; e in quanto Padre del Cristo che toglie il peccato del mondo, ha un nome, prima occulto, che ora viene ad essi manifestato". Perciò prima della venuta di Cristo non si sapeva che in Dio ci fossero paternità e filiazione. Quindi non si credeva esplicitamente nella Trinità.
3. In Dio siamo tenuti a credere espressameme ciò che forma l'oggetto della beatitudine. Ora, oggetto della beatitudine è la somma bontà, che si può concepire in Dio anche a prescindere dalla distinzione delle persone. Dunque non era necessario credere esplicitamente nella Trinità.

IN CONTRARIO: Nell'antico Testamento la trinità delle Persone viene espressa in molte maniere; fin dal principio della Genesi, p. es., si legge: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza". Quindi fin da principio fu necessario per salvarsi credere il mistero della Trinità.

RISPONDO: Non è possibile credere esplicitamente il mistero di Cristo, senza la fede nella Trinità: poiché il mistero di Cristo implica l'assunzione della carne da parte del Figlio di Dio, la rinnovazione del mondo mediante la grazia, e la concezione del Cristo per opera dello Spirito Santo. Perciò prima di Cristo il mistero della Trinità fu creduto come il mistero dell'incarnazione, e cioè esplicitamente dai maggiorenti, e in maniera implicita e quasi velata dalle persone semplici. Quindi venuto il tempo della propagazione della grazia, tutti sono tenuti a credere espressamente il mistero della Trinità. E tutti quelli che rinascono in Cristo devono questo beneficio all'invocazione della Trinità, secondo le parole evangeliche: "Andate, ammaestrate tutte le genti battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Per tutti e in tutti i tempi fu necessario credere in Dio esplicitamente quelle due cose. Non è detto però che per tutti e in tutti i tempi codesta fede sia stata sufficiente.
2. Prima della venuta di Cristo la fede nella Trinità era nascosta nella fede dei maggiorenti. Da Cristo invece essa venne manifestata al mondo per mezzo degli Apostoli.
3. La somma bontà di Dio, in quanto è comprensibile dagli effetti, si può concepire senza la trinità delle Persone. Ma in quanto si identifica con Dio stesso, così come la vedono i beati, non si può concepire senza la trinità delle Persone. Inoltre per condurci alla beatitudine non c'è che la missione delle Persone divine.

ARTICOLO 9

Se credere sia un atto meritorio

SEMBRA che credere non sia un atto meritorio. Infatti:
1. Il principio del merito è la carità, come sopra abbiamo dimostrato. Ora, la fede è prerequisita alla carità, come la natura. Perciò, come non è meritorio un atto naturale (poiché con i mezzi naturali noi non meritiamo), così non lo è un atto di fede.
2. Credere è un atto che sta tra l'opinare e il sapere che è il considerare le cose di scienza. Ora una considerazione scientifica non è meritoria; e così pure non lo è un 'opinione. Dunque non è meritorio neppure credere.
3. Chi credendo aderisce a una cosa ha o non ha un motivo sufficiente che lo induce a credere. Se egli ha un tale motivo, l'atto non sembra essere meritorio: poiché egli non è libero di credere e di non credere. Se invece il motivo è insufficiente, credere è un atto di leggerezza come afferma l'Ecclesiastico: "Chi subito crede è di cuore leggero"; e quindi l'atto non è meritorio. Perciò in nessun modo credere è un atto meritorio.

IN CONTRARIO: S. Paolo insegna, che i santi "per la fede raggiunsero le promesse". Ora, questo non sarebbe successo se non avessero meritato col credere. Dunque credere è meritorio.

RISPONDO: Come abbiamo già detto, i nostri atti sono meritori, in quanto procedono dal libero arbitrio mosso da Dio mediante la grazia. Ecco perché qualsiasi atto umano soggetto al libero arbitrio, se è indirizzato verso Dio, può essere meritorio. Ora, credere è un atto dell'intelletto che aderisce alla verità divina sotto il comando della volontà mossa da Dio mediante la grazia e quindi è soggetto al libero arbitrio in ordine a Dio. Dunque l'atto di fede può essere meritorio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La natura sta alla carità, che è il principio del merito, come la materia sta alla forma. Invece la fede sta alla carità come la disposizione che precede l'ultima forma. Ora, è noto che il soggetto, ovvero la materia, e così pure la disposizione, non possono agire in virtù della forma, prima dell'infusione della forma. Però dopo codesta infusione, sia il soggetto, che la disposizione precedente agiscono in virtù della forma, che è il principio agente principale: il calore del fuoco, p. es., agisce in virtù della forma sostanziale (del fuoco). Perciò sia la natura che la fede non possono compiere un atto meritorio: ma se interviene la carità, gli atti di fede con essa diventano meritori, e così pure gli atti della natura, ovvero quelli naturali del libero arbitrio.
2. Nel sapere si possono considerare due cose: l'adesione di chi sa alle verità scientifiche, e la considerazione attuale di codeste verità. L'adesione suddetta non è soggetta al libero arbitrio: perché chi sa è costretto ad aderire dall'efficacia della dimostrazione. Perciò l'adesione alla scienza non è meritoria. Invece è soggetta al libero arbitrio la considerazione attuale delle verità scientifiche: infatti è in potere dell'uomo considerarle, o non considerarle. Ecco perché codesta considerazione può essere meritoria, se viene rivolta al fine della carità, cioè a rendere onore a Dio, o utilità al prossimo. Ma nella fede sia l'una che l'altra cosa è soggetta al libero arbitrio. Perciò l'atto di fede può essere meritorio in tutte e due le maniere. Invece l'opinione non ha un'adesione ferma: infatti, come dice il Filosofo, essa è qualche cosa di debole e di instabile. Quindi non deriva da un volere perfetto. Cosicché dal lato dell'adesione non sembra avere un considerevole aspetto meritorio. Invece può essere meritoria dal lato della considerazione attuale.
3. Chi crede ha motivo sufficiente che l'invita a credere: infatti viene indotto dall'autorità della rivelazione di Dio confermata dai miracoli; e più ancora dall'ispirazione interna di Dio che lo invita. E quindi non crede con leggerezza. Tuttavia non ha un motivo sufficiente che lo induce a una conoscenza scientifica. Ecco perché non si elimina il merito.

ARTICOLO 10

Se le ragioni portate a favore della fede ne diminuiscano il merito

SEMBRA che le ragioni portate a favore della fede ne diminuiscano il merito: Infatti:
1. S. Gregorio insegna, che "non ha merito la fede cui la ragione umana offre una prova". Perciò, se la ragione umana che offre una prova adeguata esclude totalmente il merito della fede, è chiaro che una ragione umana qualsiasi, portata a sostegno delle cose di fede, ne diminuisce il merito.
2. Quanto sminuisce la ragione di virtù, sminuisce pure la ragione di merito: poiché, come dice il Filosofo, "la felicità è il premio della virtù". Ora, la ragione umana sminuisce la ragione di virtù nella fede: poiché nella fede è essenziale avere per oggetto cose inevidenti, come sopra abbiamo visto; e più numerose sono le ragioni addotte a favore di una cosa, tanto meno è inevidente. Perciò le ragioni umane a favore delle cose di fede sminuiscono il merito di questa.
3. Cause contrarie devono avere effetti contrari. Ora, gli elementi negativi contrari alla fede, cioè, sia la persecuzione di chi vuole costringere ad abbandonarla, sia le ragioni che suggeriscono codesto abbandono, aumentano il merito della fede. Dunque le ragioni a favore ne diminuiscono il merito.

IN CONTRARIO: S. Pietro scrive: "Siate sempre pronti a dar soddisfazione a chiunque vi domandi ragione della speranza e della fede che è in voi". Ora, l'Apostolo non esorterebbe a questo, se ciò dovesse diminuire il merito della fede. Dunque le ragioni non diminuiscono il merito della fede.

RISPONDO: Abbiamo detto sopra che l'atto di fede può essere meritorio perché è soggetto alla volontà non solo nell'esercizio, ma anche nell'adesione. Ora, le ragioni umane portate a favore delle cose di fede possono avere due rapporti diversi con la volontà di chi crede. Possono essere anzitutto antecedenti: quando uno, p. es., non avrebbe volontà di credere, o non l'avrebbe pronta, se non venisse indotto da una ragione umana. E allora la ragione umana addotta diminuisce il merito della fede: come abbiamo mostrato in precedenza per la passione antecedente, che nelle virtù morali diminuisce il valore dell'atto virtuoso. Infatti l'uomo come è tenuto a compiere gli atti delle virtù morali non per passione, ma per un giudizio razionale; così è tenuto a credere le cose di fede non per una ragione umana, ma per l'autorità divina.
Secondo, le ragioni umane possono essere conseguenti alla volontà di chi crede. Un uomo infatti che abbia pronta volontà a credere, escogita ed abbraccia le ragioni che riesce a trovare a tale scopo. E in questo le ragioni umane non tolgono il merito della fede, ma sono segno di un merito più grande: come nelle virtù morali la passione conseguente è segno di una volontà più pronta, come sopra abbiamo spiegato. - Il simbolo di ciò si ha nel Vangelo di S. Giovanni, là dove i Samaritani dicono alla donna, che rappresenta la ragione umana: "Noi non crediamo più per le tue parole".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. S. Gregorio parla del caso in cui uno non ha volontà di credere, se non per le ragioni addotte. Invece quando uno ha la volontà di credere le verità di fede per la sola autorità di Dio, anche se scopre delle ragioni per dimostrare qualcuna di codeste verità, p. es., l'esistenza di Dio, non per questo viene eliminato o sminuito il merito della fede.
2. Le ragioni addotte a sostegno della credibilità della fede non sono dimostrazioni capaci di portare l'intelletto umano all'evidenza. E quindi (le cose di fede) non cessano così di essere inevidenti. Ma codeste ragioni tolgono gli ostacoli della fede, mostrando che non è impossibile quanto essa propone. Perciò tali ragioni non diminuiscono il merito della fede. Invece le ragioni dimostrative addotte a favore di verità di fede, previe, s'intende, ai vari articoli, sebbene diminuiscano la formalità della fede, perché rendono evidenti le cose proposte, tuttavia non diminuiscono quella della carità, che rende il volere pronto a credere le cose inevidenti. E quindi il merito non viene a diminuire.
3. Gli elementi che contrastano la fede, sia nel pensiero umano, sia nella persecuzione esterna in tanto accrescono il merito della fede, in quanto mostrano una volontà più pronta e più ferma nel credere. Ecco perché i martiri ebbero un merito superiore nella loro fede, non allontanandosi da essa nelle persecuzioni; e i sapienti stessi hanno un merito superiore nella fede non allontanandosi da essa nonostante le difficoltà dei filosofi e degli eretici. Invece gli elementi a favore della fede non sempre diminuiscono la prontezza della volontà nel credere. E quindi non sempre diminuiscono il merito della fede.